DIONISO
Il Dio greco della Follia e
degli Eccessi

Dio dell'estasi, della follia e del vino, dell'ebbrezza e degli estremi; soave e crudele, gioioso e furente, divinità vagabonda e senza patria, che è ovunque senza appartenere a nessun luogo.
Di bellezza indefinibile, nè marcatamente maschile e neanche femminile, ma suadente e seducente per chiunque entri nella sua attenzione.
Un Dio pericolosissimo, per i Greci ed in seguito per i Romani, perchè appunto considerato deviante per i suoi seguaci, che con i Baccanali misuravano l'estremo del godimento e della perversione.

LA BELLEZZA ETEREA ED ANDROGINA DEL DIO BACCO

Non si tratta, in questa statua di epoca romana del II° secolo d.C., di una bellezza dai connotati prettamente maschili. Il petto, per esempio, è affusolato e presenta un accenno di seno femminile. Il viso è bellissimo, ma è anche l'immagine di una una indefinibile sessualità: sembra quasi un misto di fattezze maschili e femminili assieme.

I capelli sono acconciati con un taglio tipicamente femminile, stile matrone romane.

Le gambe sono armoniose ed affusolate, e non certo possenti e venate di muscolatura in eccesso.

Le mani sono aggraziate e non denotano altro che grazia.

Ma da tanta grazia trascende, secondo il mito, una perfidia tipicamente femminile, quasi di strega medievale. Dioniso, infatti, strega le persone e le porta alla pazzia sfrenata se non porgono i dovuti omaggi alla sua presenza divina.





LA CONCEZIONE DELLA FOLLIA PRESSO GLI ANTICHI GRECI

Parlando di “follia”, occorre innanzitutto partire dal fatto che, come la concezione di arte, anche quella di malattia mentale ha subito notevoli mutamenti nel corso del tempo, per cui ciò che oggi intendiamo con il termine “pazzia” non è certo riconducibile al significato che aveva nell’antichità.
Nel suo I greci e l’irrazionale, l'antropologo Eric Dodds afferma che nella Grecia omerica, “quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce, il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto da un’entità superiore ". 

In altri termini, gli impulsi non sistematizzati, non razionali, non sono attribuiti all’io, ma a un’origine estranea”, a un daimon soprannaturale, a una divinità o alla moira, entità di stirpe divina, ma superiore agli dei stessi. La pazzia, l’alterazione incomprensibile del comportamento, era vista, dunque, nell'età classica, come una condizione parziale e temporanea, attribuita a un agente esterno, non a cause fisiologiche o psicologiche. 

Nel mondo omerico, al fondo di ogni manifestazione della follia, agiscono forze che l’uomo subisce e non riesce a controllare. E questo, prima di tutto, perché nel modello antropologico omerico manca, fondamentalmente, l’idea di “anima” (psyché), cioè di un’unità psicologica dell’io, inteso come centro coerente di pensiero, volizione, emotività e azione in grado di spiegare il comportamento dell’uomo come un tutto unitario.

In Omero l’anima non è quel centro unitario dal quale sgorgano tutte le azioni, volizioni e pensieri dell’uomo. Mancando un “io” vero e proprio, manca anche la follia dell’io: quest’ultima non è intesa come uno stato degenerativo della psiche, cioè come una malattia, meno che mai come uno stato definitivo, ma sempre solo come uno stato momentaneo e passeggero. Come una malattia, appunto, da cui è possibile guarire con bene placito degli Dei.

Questi squilibri improvvisi vengono chiamati da Omero ménos; molto spesso è un dio che lo trasmette all’eroe e questi non può assolutamente opporvi resistenza. L’uomo omerico si muove sempre agito o dal destino o dalle sue emozioni: passa da una all’altra senza soluzione di continuità. I conflitti interiori prendono allora la forma di un dialogo-scontro tra diverse istanze identificate con divinità o demoni e rappresentate attraverso visioni, voci, presenze allucinatorie. Potrebbero essere descritti in termini freudiani come classico conflitto tra i desideri presenti nell’inconscio e la censura sociale rappresentata dal Super-io.
È proprio dal conflitto che nasce la malattia, ma gli eroi omerici sfuggono al disagio che esso produce collocando quel conflitto fuori di sé, attribuendolo a forze esterne, divine o demoniche. D’altra parte, apparizioni allucinatorie di figure divine, voci interiori o sdoppiamenti di personalità erano probabilmente fenomeni abbastanza comuni nell’esperienza psicologica dell’uditore o del lettore dei poemi omerici. Si tratta di fenomeni che noi ascriveremmo oggi al vasto campo della schizofrenia, ma che, secondo Dodds, nel mondo greco erano assolutamente comuni, in quanto legati a una struttura psichica diversa dalla nostra, cioè a una specifica predisposizione della mente primitiva o arcaica alle allucinazioni, al dare forma di realtà a immagini prodotte dal cervello.

Pertanto, secondo i Greci, anche dell'epoca classica,  il limite tra razionale e pre-razionale o irrazionale è estremamente mobile e precario.  

All’interno del sapere tradizionale degli antichi greci, dunque, la follia è cosa diversa da ciò che teorizza la psichiatria moderna: chi è colpito da “mania” è visto come un “posseduto”, mosso da una forza invisibile che viene attribuita a una divinità o a un demone. La follia è la conseguenza di una contaminazione, in particolare di una contaminazione “sacra” e il folle contiene in sé una forza ambivalente, positiva e negativa, che esalta e che distrugge al tempo stesso.
Nel mito i contaminati sono spesso eroi, come Oreste o Eracle, i quali vengono trascinati da un delirio che fa vedere loro cose che non esistono e che li induce a delitti efferati. Terribili le pagine in cui Euripide racconta la follia di Eracle, che, accecato da un’allucinazione, uccide moglie e figli. In questo caso l’eroe è posseduto da una forza interna, ma viene anche “inseguito” dalla follia, spesso rappresentata dalle Erinni, che non penetrano nel corpo del folle ma lo perseguitano con incantesimi e fatture.
Questa contaminazione può essere legata alla dimenticanza di qualche atto rituale, quindi a un’offesa nei confronti della divinità, o alla violazione di tabù relativi a oggetti sacri. La follia appare quindi come una punizione, le sue espressioni sono sempre violente e l’uomo o l’eroe vengono sfigurati fisicamente. Ed in questo Dioniso è, secondo i Greci, un maestro.
Per guarire dalla follia occorre, pertanto, un rito purificatore, una sorta di esorcismo. Si ritiene che in ambito greco, a differenza di quanto capitava in quello ebraico, il demone non venisse scacciato del tutto ma, piuttosto, ammansito. Questo perché, mentre per gli ebrei il demone è manifestazione del Male e in quanto tale va eliminato, per i Greci, invece, esso è un’entità intermedia tra l’umano e il divino, e appartiene alla sfera del sacro.
Nelle immagini delle Baccanti, possedute da Dioniso, trova espressione una forma di follia temporanea e ritualizzata. Durante il rito le donne impugnavano il tirso, una canna con una pigna in cima, e si allontanavano dalla famiglia al suono di flauti e tamburelli; si abbandonavano a danze sfrenate e si cibavano di carne cruda. Grazie alla musica dai ritmi ossessivi e alla danza, il rito si concludeva con la caduta in uno stato di trance, dopo il quale era possibile il ritorno delle donne all’ordine sociale tradizionale. La follia delle baccanti serviva a dare sfogo temporaneo agli impulsi irrazionali: resistere a Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della propria natura.

Nelle Baccanti di Euripide (406-403 a. C.) Penteo, re di Tebe, bandisce dalla città il culto di Dioniso e ne misconosce la divinità, volendo affermare il predominio assoluto della ragione. Dioniso, per punirlo, ne rende folle la madre, Agave, e le Baccanti, che uccidono Penteo e ne dilaniano le membra, credendolo una belva.
Dioniso condanna così la presunzione dell’uomo che pensa di poter cacciare la follia rituale delle donne dalla città e di affermare il predominio assoluto della ragione.
Quello di Penteo non è il solo mito che lega il dio Dioniso alla pazzia. Quando le tre figlie di Preto, re di Tirinto, infatti, si rifiutarono di partecipare ai misteri dionisiaci, il dio le punì rendendole pazze e facendole vagare per i monti in balia di frenesie erotiche.
Questi miti avranno larga rappresentazione, soprattutto nella pittura vascolare. Questo è invece un affresco rinvenuto in una domus pompeiana.

I riti dionisiaci erano collettivi e periodici, e pertanto integrati nella società e nella sua cultura. I comportamenti e le manifestazioni degli adepti, che noi oggi reputeremmo patologici, erano considerati normali e anzi costituivano una forma di conoscenza più profonda della realtà. Si assiste in questo caso a una sorta di assimilazione dell’eccessivo e del trasgressivo all’interno della comunità. I partecipanti erano donne e venivano non a caso chiamate “menadi”, cioè folli, a Sparta dysmàinai, brutte e folli. Si trattava in fondo della reintegrazione di due forme di marginalità, quella della follia e quella della donna, all’interno di una polis organizzata in modo prevalentemente maschile.


Le adepte erano organizzate in congregazioni che a Delfi erano chiamate delle tìadi (le “ribollenti”) e che possedevano una forma di ufficialità. In alcuni periodi dell’anno convergevano da diverse parti della Grecia verso Delfi e si poteva assistere allo spettacolo dei loro cortei danzanti lungo le strade. Naturalmente i veri e propri riti dionisiaci non si compivano in pubblico ma fuori dagli abitati, preferibilmente sulle montagne e comunque in luoghi marginali che favorivano una situazione psicologica di straniamento. Perciò, anche se le autorità delle poleis cercavano di normare e ufficializzare questi riti, essi per lo più sfuggivano a questo tentativo di controllo e conservavano tutta la loro carica eversiva.

Riferendosi alle Baccanti di Euripide, si può stilare un elenco delle caratteristiche ricorrenti nei riti dionisiaci:

  • la danza notturna in luoghi fuori dall’abitato (boschi o monti),
  • la presenza di donne sia adulte sia adolescenti,
  • il travestimento con pelli di animali da parte di alcune menadi,
  • la danza sfrenata al suono di flauti e tamburelli, agitando il tirso,
  • la posizione tipica della testa, rivolta all’indietro con gli occhi rivolti verso l’alto, e i capelli scompigliat,
  • un ritmo crescente sino al parossismo e poi allo sfinimento,
  • le grida violente e ritmate, ossessive, e in particolare il grido rituale “evoè”.
  • una insensibilità al caldo e al freddo, persino al dolore, accompagnata da un accrescimento sorprendente della forza fisica,
  • l’uccisione, o meglio lo strazio (sparagmòs, squartamento), di animali, le cui carni vengono divorate ancora crude e palpitanti,
  • la manipolazione di serpenti velenosi,
  • la caduta di alcune menadi a terra, in stato di trance, interpretato come stato di possessione da parte della divinità,
  • la presenza di visioni (allucinazioni), di cui poi le menadi perdono il ricordo.
Rilievo romano di una menade con tirso 120-140 aC circa Museo del Prado - Public Domain via Wikipedia Commons
Rilievo romano di una menade con tirso, 120-140 a.C. circa, Museo del Prado

La danza e la musica portano allo scatenamento dei sensi e alla perdita di coscienza, favorendo l’emergere di una dimensione irrazionale e l’identificazione con gli elementi primordiali, pre-razionali e pre-umani della natura.
Nel mondo romano, l'adozione di Dioniso si tradusse nel culto del Dio Bacco, Dio del vino e dell'ebrezza, ma anche, appunto, dell'irrazionale e della pazzia.