SOCIETA' LIQUIDA

      Zygmunt Bauman, “VITA LIQUIDA” 

"Vita liquida", "Società liquida", “Modernità liquida” sono espressioni create, di recente, dal sociologo Zygmunt Bauman, per descrivere le caratteristiche del mondo in cui viviamo.

La "vita liquida" è una vita nella quale sembra non ci siano punti fermi; tutto cambia molto velocemente, troppo velocemente.

Stiamo ancora imparando come affrontare una situazione, ma, nel frattempo, la realtà è cambiata, la situazione è diversa, e i nostri strumenti diventano subito inadeguati o, come si dice oggi, "obsoleti". Tutto si mescola, che noi vogliamo o no, e si presenta diverso da come era in passato. Il "melting pot", cioè la pentola dove le cose si mescolano insieme, era l'espressione creata, negli Stai Uniti, qualche anno fa, per descrivere la mescolanza delle razze, delle culture, delle tradizioni, degli stili che confluivano a comporre la società americana.

Questo modo di essere, che adesso chiamano "fusion", si sta estendendo pian piano a tutto il mondo. Cinquant'anni fa, vedere una persona dalla pelle scura per le strade d’Italia, era abbastanza un avvenimento, oggi questo fatto non desta stupore in nessuno, e percorriamo le vie delle nostre città assieme ad africani, arabi, sudamericani, russi, rumeni, cinesi, giapponesi, e tanti altri che, pian piano, hanno costituito un nuovo tessuto sociale.

In certe vie, i negozi aperti dagli immigrati hanno cambiato l'atmosfera, le merci esposte provengono da paesi lontani, si sentono nell'aria i profumi di cibi diversi dai nostri, e capita, certe volte, di percorrere anche lunghi tratti di strada in città, e non sentire mai parlare in italiano.

 Situazione 1 : progresso della tecnologia

Il progresso della tecnologia non è mai stato così veloce come oggi. Nel campo dell'informatica, poi, possiamo essere sicuri che quello che compriamo oggi (hardware o software) diventerà presto vecchio, se non è vecchio già nel momento dell'acquisto. Per quel che riguarda i computers, è attuale e moderno quello che viene inventato oggi in California o in Giappone. L'ultima novità, che abbiamo appena comperato in Italia, è già vecchia di almeno sei mesi, che sono più o meno il tempo necessario per la produzione e la distribuzione.

 Situazione 2 : contraddizioni sociali e globalizzazione

Grosse contraddizioni vengono assorbite senza farci troppo caso: le persone che vivono a livello europeo, nordamericano, giapponese, con tutti gli agi, le comodità e le modernità, rappresentano circa l'otto per cento della popolazione mondiale, ma detengono più del settanta per cento delle risorse economiche e produttive del mondo.

E' stato calcolato che, se tutti vivessero allo standard americano o europeo, ci vorrebbero tre pianeti come la Terra per produrre le risorse necessarie.

Per gli americani, europei e giapponesi, che se lo possono permettere, il mondo di oggi offre

possibilità di godimento sconosciute o impossibili fino a cinquant’anni fa.

Possiamo passare da un aereo all’altro, girare tutto il mondo e assaporarne il meglio.   Possiamo violare il tempo e inseguire l’estate, volando ai Tropici in dicembre. Guidiamo macchine sempre più potenti e veloci, in strade con limiti di velocità sempre più bassi.



La globalizzazione porta sulla nostra tavola cibi che provengono da continenti diversi. Ascoltiamo la musica di un paese lontano, leggiamo storie scritte da chi vive a decine di migliaia di chilometri da noi. Internet ha aperto, nel bene e nel male, la nostra porta di casa a tutto il mondo.

 I custodi dei cancelli

Chi guadagna in questo mondo non è soltanto chi produce o vende servizi o prodotti. Chi oggi vive nella sicurezza spesso si annoia, e ha fame di esperienze emozionali, di assumere identità provvisorie, o altre identità. E così entrano in campo i “gate keepers” (“custodi del cancello”), cioè quelli che consentono di vivere queste esperienze e provare queste identità. Fanno parte di questo nuovo lavoro, i provider, che ti permettono di accedere a Internet, le televisioni satellitari o via cavo, i gestori delle reti telefoniche, chiunque faccia godere di qualche forma di intrattenimento, dal teatro al cinema, alle agenzie di viaggio che ti mandano in paesi lontani, dove potrai essere un altro, se vuoi ……………

 Identità individuale e sociale

Chi vive nelle società industrializzate può comporre la sua identità mescolando stili diversi, come abbigliamento, cultura, cibo, musica, tecnologia, modi di vivere, importati da tutto il pianeta.

Il gioco andrà avanti, finché alla nostra ricchezza corrisponderà la povertà del terzo mondo, di coloro ai quali non è stato concesso scegliere uno stile di vita, cui il destino è stato assegnato, ai quali la società ha imposto il rango di “scarti di produzione”, nel sistema economico mondiale del “libero scambio”.

 IL modello del consumismo

Perché il modello che viene offerto e presentato è solo e sempre quello del consumismo, mentre gli slogan pubblicitari ribadiscono che la nostra identità è legata ai beni che possediamo. Casa, automobile, vestiti, secondo questo modo di pensare, rivelano chi noi siamo veramente. Se l'abito è griffato, posso sentirmi più sicuro di me stesso. Se invece tutti ci tenessimo quello che abbiamo, finché non si consuma davvero, il sistema economico mondiale andrebbe in collasso.

 Evoluzione della pubblicità

Negli ultimi dieci anni la pubblicità è cambiata profondamente: non dice più che il detersivo "lava più bianco"; ti fa capire invece che, se usi un certo prodotto, ti potrai identificare con i giovani, belli, ricchi, potenti, playboy o con le ninfette, veline, maggiorate, bellone, donne in carriera, che compaiono nelle réclames in TV, radio, giornali, manifesti. In alternativa, c’è chi vende l’immagine della famiglia felice, che abita nella valle degli orti, vicino al mulino bianco.

Oltre a questo aspetto, un’altra importante caratteristica del cambiamento nella pubblicità di oggi:

si chiama “branding”.

“Brand” è la marca di un prodotto.

Ciò che i pubblicitari cercano di trasmettere coi loro annunci, è la convinzione che un certo marchio sia quanto di meglio c’è nel settore, e che chi indossa o usa prodotti con quel marchio ne ottenga prestigio personale.

Si cerca, in questo modo, di enfatizzare il marchio, per creare dei clienti “fedeli”; clienti disposti a comprare quasi tutto, a patto che sopra ci sia stampato il marchio della azienda che amano.

Per fare questo, viene utilizzato un martellamento pubblicitario che presenta sempre la stessa equazione: marchio = qualità = distinzione = prestigio.

In più, vengono organizzati “eventi” sponsorizzati dal marchio stesso: serate di gala, inaugurazione di nuove sedi, concorsi, awards, premiazioni, gare sportive, sponsorizzazioni di squadre o atleti, perfino azioni a favore dei popoli meno fortunati di noi, magari attraverso “maratone di solidarietà”.

La presenza a questi “events” di celebrità del mondo del cinema o dello sport rafforza l’immagine del

marchio e lo identifica con personaggi famosi e vincenti.

 Aziende multinazionali e globalizzazione

Tutto questo, se ben gestito, consente alle aziende di cavalcare, a proprio favore, la tigre della globalizzazione. Se il mio marchio è forte, posso smettere di produrre con la mia azienda, magari in Italia, a costi più alti rispetto al Terzo Mondo, alla Cina, all’Est Europeo.

Naomi Klein osservava che: “Molte, tra le aziende più note, non si occupano più di produrre le merci, ma piuttosto le acquistano, e vi appongono il proprio marchio.”

Per Bauman: “E’ il sacchetto, col marchio bene in vista, a dare significato al prodotto acquistato. Il marchio di un prodotto, non aggiunge valore a quel prodotto, ma è il valore del prodotto. Il valore di mercato, e dunque il solo valore che conti.”

 Il messaggio della TV

Anche la TV è cambiata, ed è sempre più “autoreferenziale”, cioè si riferisce a se stessa. Crea un evento, un personaggio, una storia, e poi, in altri programmi, commenta questi eventi, personaggi, storie, e ne allarga la portata. E poi commenta chi commenta, e così via. In altre parole, crea un mondo.

 Essere se stessi ?

E, se chi vive nel terzo mondo, oppresso da bisogni vitali, non può scegliere la propria identità, ma può cercare solo di sopravvivere, chi invece vive negli agi, è sottoposto continuamente ad un dilemma tra due messaggi contrastanti, un “doppio messaggio” che continuamente riceve.

Da un lato l’invito ad “essere se stessi”, con tanto di corsi e manuali psicologici già pronti, per impararlo; dall’altro, il fatto che l’unico comportamento “individuale”, che la società tolleri, è quello del conformismo: essere uguale agli altri, potersi distinguere solo per gli oggetti che possediamo.

 Libertà vs. sicurezza

Un altro dilemma è quello tra libertà e sicurezza: più aumenta una, più diminuisce l’altra e viceversa. La "società liquida" ha perso i valori del passato, le tradizioni degli antenati, i principi che guidavano le generazioni precedenti.

Nell’inquietante quadro, descritto da Zygmund Bauman, viaggiamo, privi di strumenti di riferimento,

verso una meta che non conosciamo, senza sapere nemmeno quanto durerà il viaggio.


 Martiri ed eroi

La società occidentale dei nostri giorni si oppone a sacrificare le soddisfazioni di oggi, in vista di finalità remote.

Delega al consumo la soddisfazione immediata di ogni bisogno dell’individuo, che, solo nel privato, può

realizzarsi.

“Gratificazione istantanea” e “felicità individuale” , ottenuti attraverso il consumo, hanno svilito gli ideali del “lungo periodo” e della ”totalità”. Non esistono più valori per i quali sacrificarsi ed impegnarsi, non c’è più bisogno di martiri ed eroi.

Gli eroi, protagonisti delle civiltà precristiane, misuravano la loro gloria sulla base dei nemici uccisi.

I martiri, dai primi cristiani in avanti, erano disposti al sacrificio, per difendere un’idea, per dimostrare che la ragione non è sempre dalla parte del più forte e la forza non è garanzia di giustizia.

Sia gli uni che gli altri, e i miti che ne sono stati tratti, hanno alimentato, in Europa, nel Cinquecento, la nascita dello Stato-Nazione.


Agli inizi dell’Era Moderna, l’Europa era ancora divisa in stati dinastici, in una mescolanza di gruppi etnici e linguistici.

Lo Stato-Nazione, per nascere e crescere, aveva bisogno di consenso, e patriottismo.

I martiri, gli eroi della patria, i caduti nelle guerre, il milite ignoto, e i loro mausolei, elevavano a divinità il concetto di nazione.

Tutto questo, per noi europei, appartiene ormai al passato, e lo stato nazione, che, con la propria sovranità, poteva garantire l’incolumità dei suoi cittadini, scricchiola oggi sempre più sotto le spinte della globalizzazione, mentre subisce macro decisioni economiche, commerciali e di mercato, prese altrove.


 Profughi e indesiderabili

Un’altra nuova caratteristica riguarda il trattamento riservato agli “indesiderabili”. I criminali del passato, condannati dai Tribunali, venivano rinchiusi(dentro lo Stato)in fortezze e prigioni.

I profughi di oggi, condannati dalla fame, vengono ricacciati indietro alla frontiera(fuori dallo stato): se ne occupi qualcun altro.

Qualcosa di simile a quello che succedeva in Europa verso la fine del Medioevo. La "nave dei folli" non é solo una creazione letteraria successiva, ma una realtà ben presente, soprattutto in Germania, dove i borgomastri delle varie città, usavano consegnare i pazzi ai marinai e ai mercanti che percorrevano il territorio coi battelli fluviali, affidando ad essi il compito di scaricarli in qualche altra città, possibilmente molto lontana, o di lasciarli, sempre molto lontano, in qualche deserta regione di campagna.

Le guerre dei nostri giorni vengono sempre più controllate da organismi internazionali, ONU, che cercano una mediazione tra le parti; abbiamo abbandonato l’antica usanza della vendetta e l’abbiamo trasformata in risarcimento economico dei danni, magari pagato dall’assicurazione. Ogni ferita ha il cartellino col prezzo.

 Identità attraverso il terrorismo

Per tutti questi motivi, a noi occidentali, che abbiamo sostituito il consumo dei beni e la rapida soddisfazione a tutti gli ideali del passato, resta molto difficile capire che, ancora oggi, ci sia qualcuno disposto a sacrificare la propria vita per una causa.   Gli “attentatori suicidi” islamici vengono da parte nostra ricondotti nella sfera del fanatismo religioso di persone ignoranti, che sono state condizionate fin dalla nascita.

Chi ha soldi, e vive nel mondo occidentale, può costruire la sua identità personale attraverso gli oggetti di consumo che acquista (dai vestiti alle automobili).

Chi non ha queste possibilità, spesso si attacca alla fede, che è gratuita; torna indietro nel tempo e diventa un martire religioso, rivestendo così

un’identità molto forte. Così forte da farlo morire, spesso.

 Il mondo delle celebrità

La “società liquida” ha quindi abbandonato il culto dei martiri ed eroi, e lo ha sostituito con

l’ammirazione per le “celebrità”, che è molto meno impegnativo.

Per Bauman, le caratteristiche principali della celebrità sono la continua visibilità sui media, l’onnipresenza dell’immagine, la frequenza con cui viene pronunciato il nome della persona.   Attori del cinema e, soprattutto, della televisione, cantanti, musicisti, sportivi, campioni, politici, esperti vari, rientrano in questa categoria di “persone note per la loro notorietà” (D.J.Boorstin, 1961).

Se ammiro un eroe o un martire, religioso o civile, vuol dire che ne seguo il pensiero, la fede, che faccio parte di un gruppo di persone accomunate da un ideale.

Se sono un “fan” di una celebrità, mi posso illudere di far parte di un gruppo mondiale di persone

unite dall’ammirazione per quel personaggio, non mi è richiesto nessun impegno, posso mollare da un 

momento all’altro, e passare ad ammirare qualcun altro. Posso anche essere “fan” di più celebrità

contemporaneamente, nessuno mi criticherà per questo.


 L’arte oggi

In questo contesto, anche l’arte, il suo significato, il suo valore, subiscono dei cambiamenti di fronte

al mercato globale.

L’antica contesa, che vedeva da un lato gli “artisti” e dall’altro i “managers”, si è appiattita in una

“rivalità tra fratelli”.

Gli uni hanno bisogno degli altri e viceversa. I “managers” mercanti d’arte hanno bisogno di opere da

vendere; gli artisti hanno bisogno di qualcuno che venda le loro opere. Se litigano tra loro, è solo per decidere chi comanda.

L’arte, oggi, viene trattata dai galleristi come un qualsiasi prodotto, che deve avere certe caratteristiche, per poter essere immesso sul mercato con speranza di successo.

Il gallerista esegue uno studio di mercato per individuare i possibili clienti. Impone all’artista, che ha messo sotto contratto, di essere costante nello stile, riconoscibile, di produrre opere di piccola dimensione, di avere già eseguito qualche centinaio di opere, e averle pronte, per poter soddisfare eventuali future improvvise richieste di mercato.

Richiede, cioè, il marchio e la distribuzione, come per l’abbigliamento.

L’arte “buona” è quella famosa, perché esposta nelle gallerie di prestigio, presentata alle mostre, commentata sulle riviste specializzate; l’arte “cattiva”, o la “non arte”, è ciò che non ha mercato, l’opera che il gallerista ha rifiutato, perché poco commerciabile. Non esiste altro criterio, oggi, per distinguere il “valore dell’opera d’arte”.

L’arte attuale non è più “rivoluzionaria”; il sistema economico mondiale non ha più paura degli artisti; anzi, tollera benissimo il fatto che ci sia una zona, l’Arte, controllata e recintata, nella quale è possibile esprimere, “artisticamente”, anche contenuti eversivi, ribelli, di critica al sistema.


 Eternità dell’arte ?

Un altro cambiamento riguarda la durata nel tempo dell’opera d’arte.

Uno dei principali elementi che, fino ad oggi, caratterizzavano l’opera d’arte era la sua permanenza

nel tempo, la sua “eternità immortale”.

Come diceva Hannah Arendt: “L’oggetto culturale resiste al tempo”, ed ancora:

“Un oggetto è culturale, in quanto sopravvive a qualsiasi utilizzo abbia potuto presiedere alla sua creazione.”

Oggi non più; il sistema economico spinge avanti velocemente, ed anche le opere d’arte devono essere ammirate, usate, fruite velocemente e poi essere sostituite con nuove opere. Altrimenti il mercato si ferma.

Se osserviamo da questa angolazione varie tendenze dell’arte moderna, ne rileviamo la condizione di

precarietà e di breve durata nel tempo.

Prendiamo, ad esempio, tutte le “installazioni” che si vedono oggi nelle mostre, gli “art video”, che concentrano tutto il mondo dell’artista in pochi minuti e in altrettanto poco tempo scompaiono; l’utilizzo di materiali “poveri”, degradabili, friabili, deperibili, come cartone, stracci, carta, che non resistono al tempo; gli interventi sulla natura, magari realizzati solo per poter scattare delle foto dall’alto; i dipinti realizzati con vernici non resistenti, le immagini che svaniscono sui computers

…………

I padroni dell’agricoltura

Se, dall’arte, passiamo a considerare l’agricoltura, notiamo come, con le tecnologie e le macchine agricole, portate dalla globalizzazione, l’agricoltura, oggi, produce sempre più cibo, occupando sempre meno personale. E i guadagni non ricadono sul territorio.

Di conseguenza, la maggior parte della popolazione agricola, che ha perso il lavoro, e non ha altra specializzazione lavorativa, va a costituire le baraccopoli, che sorgono intorno alle grandi città.

Fuori, nelle baracche, vive un numero enorme di abitanti privi di qualsiasi forma di reddito.

Dentro, in città, si reagisce a questa situazione, concentrandosi sulla propria sicurezza personale e domestica.

 L’incubo della sicurezza

Si mettono in atto sofisticati sistemi di protezione domestica, con telecamere, antifurti, rivelatori di presenza.

Si paga la vigilanza privata, oppure si va ad abitare in una “gated community”, centri residenziali cintati da un alto muro, con accessi sorvegliati da guardie armate, che pattugliano 24 ore su 24 il quartiere.

In questa situazione, c’è chi va a lezione di arti marziali, chi frequenta il poligono di tiro, chi si mette indumenti protettivi, come certi scarponi americani.

Se si esce in macchina, con la paura degli altri, allora bisogna scegliere il SUV più grosso, pesante, potente, climatizzato, corazzato, dotato di ogni sistema di sicurezza attiva e passiva. E se consuma tanto, e inquina, pazienza.

Di fronte alla paura di un cambiamento sociale, inarrestabile e imprevedibile, alla ricerca di qualcosa di stabile, seguendo quelli che Freud chiamava “fenomeni di spostamento”, si conducono battaglie contro il fumo delle sigarette, i fast food, l’obesità, l’uso dei preservativi, l’esposizione al sole, il colesterolo ………

 Villaggio globale e spazio pubblico

Il “villaggio globale”, che ipotizzava Marshall McLuhan, non si è ancora realizzato. In compenso, le città della terra si globalizzano e diventano sempre più simili.

Lo spazio e l’arredo pubblico delle città, sono “vittime collaterali” della globalizzazione e subiscono un po’ ovunque limitazioni dovute alla paura degli altri: in molti parchi degli Stati Uniti, le panchine sono a forma circolare, per impedire che i barboni ci possano dormire; oppure, dopo la chiusura del parco, si possono azionare getti d’acqua che spruzzano tutte le panchine impedendone l’uso.

Già nel 1990 Richard Rogers, uno dei più famosi architetti britannici, scriveva: “Se proponiamo un progetto ad un investitore, ci chiederà subito: “A che servono gli alberi e perché mettere dei portici?”. Agli investitori interessa solo lo spazio destinato ad uffici o abitazioni. Se non riusciamo a garantire che l’edificio sarà ammortizzato entro dieci anni, è inutile fargli proposte.”

Lo spazio pubblico dell’antica Grecia, la piazza (agorà) dove si svolgeva la vita sociale della città, rischia di diventare, come diceva l’architetto sudafricano Jonathan Manning, “spazio inutilizzabile tra sacche di spazio privato”. In città come queste, “le interfacce tra sfera pubblica e spazi privati, sono costituite solo dalle vetrine dei negozi o dai complessi meccanismi difensivi per tenere a distanza il prossimo: portinerie, muri, filo spinato, recinzioni elettriche.”

 Paura e sperequazioni

Viviamo quindi in una società impaurita, che propone solo il consumo come ideale di vita. In questo contesto, vengono creati sempre nuovi bisogni e vengono alimentati desideri che possano essere provvisoriamente soddisfatti solo con beni di consumo.

Il consumismo attuale, scrive Bauman, “è un’economia basata sull’inganno, sull’esagerazione e sullo spreco, che non sono segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute, l'unico regime nel quale la società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza.”

Ed ancora: “La società di oggi interpella coloro che ne fanno parte, soltanto in quanto consumatori. La sindrome consumista si basa sulla velocità, sull’eccesso, sullo scarto.” Compro e butto via; destinazione finale dei miei acquisti: pattumiera.


Amore liquido

Se tutto è incerto e provvisorio, gestire un legame affettivo di lunga durata diventa un’impresa. La crisi del settimo anno di matrimonio è qualcosa che appartiene al passato. Negli Stati Uniti, la punta delle separazioni, viaggia ormai intorno ai diciotto mesi – due anni dal matrimonio. Questa società non insegna la pazienza, il sacrificio, la mediazione, lo sforzo costruttivo. Certo, liberarsi di un partner è molto più straziante, che far fuori un vecchio PC o cambiare la macchina, ma la mentalità è quella del tutto e subito, e poi di nuovo tutto e subito.

Anche le amicizie richiedono costanza e impegno; in un momento come questo, avere degli amici diventa sempre più prezioso. Ma, in una società liquida, dove tutto cambia in fretta e il lavoro costringe le persone a frequenti cambi e spostamenti, mantenere viva un’amicizia diventa molto difficile, in certi casi impossibile.

 La cura del corpo

Per distrarsi da queste ed altre sofferenze molte persone si dedicano alla cura del proprio corpo, oggi più che nell’Antica Grecia. Il proliferare di terme, SPA, wellness center, palestre, saune, centri di massaggio, assieme ai volumi di vendita dei prodotti dedicati alla cura del corpo e alla bellezza , ne sono la prova.

Osserva Bauman: “Nella società dei consumatori, la fitness sta al consumatore come la salute stava al produttore nella società dei produttori.”

Salute e fitness, tuttavia, non sono obiettivi che possano essere raggiunti una volta per sempre, ma rappresentano un impegno che dura per tutta la vita, e che produce, in molte persone, un’ansia che non riesce a spegnersi, se non provvisoriamente.

Su questi timori si innestano le azioni pubblicitarie di esperti di marketing, che cercano di pilotare l’ansia, della donna e dell’uomo di oggi nei confronti del proprio corpo, come qualcosa di risolvibile, magari con un bagno turco in una SPA di lusso.

 A chi troppo ……

L’attenzione, a questo punto, si sposta sulla alimentazione.

La questione “grasso o magro”, è strettamente legata alla promozione del corpo del consumatore, come obiettivo centrale del marketing.

Anoressia e bulimia, in questo contesto, possono essere viste come caratteristiche della società dei consumi.

La percentuale degli obesi negli Stati Uniti non accenna a calare. Il New York Times ha definito,

recentemente, la guerra contro l’obesità come “la guerra culturale del nuovo secolo”.

Avere un figlio oggi

In questa trasformazione permanente, nella società occidentale, opulenta e liquida, anche il concetto di maternità e il desiderio di avere figli subiscono dei cambiamenti.

Viene affermata la morte del “mito della maternità”, e si mette in luce il costante, faticoso impegno, che pesa sulle spalle di chi si occupa di bambini.

La donna che lavora, la “donna in carriera”, oggi, ha poco tempo a disposizione ed é molto lontana dall’immagine del passato di “regina della casa”, “angelo del focolare”, “casalinga” più o meno “disperata”.

Fare un figlio e seguirlo è un impegno a lunga scadenza, ben diverso dalla soddisfazione immediata di un desiderio, come ci viene proposto dalla pubblicità. Bauman lo paragona a firmare un assegno in bianco o prendersi la responsabilità, per cose che non si conoscono, e non sono prevedibili.

A livello finanziario, avere un figlio significa quasi sempre una perdita di reddito, associata ad un grosso aumento delle spese familiari.


Bambini: futuri consumatori

I bambini di una volta, considerati “il futuro della nazione”, venivano educati per la continuità dello Stato nel quale vivevano. Dovevano diventare cittadini responsabili, partecipare al processo produttivo oppure difendere lo Stato servendo sotto le armi.

Il destino dei bambini di oggi è diventare dei consumatori sempre più precoci.

L’attività di marketing, rivolta ai bambini, tende a trasformarli in “decisori informati”, dotati di

conoscenza dei prodotti, che possano pilotare gli stessi genitori negli acquisti.

 Lavoro provvisorio e formazione permanente

Se consideriamo, adesso, il mondo del lavoro nella società liquida rileviamo anche in questo campo i continui cambiamenti prodotti dalla globalizzazione del mercato dei consumi.

Jacek Wojciechowski, esperto di insegnamento universitario, nel 2004, osservava: “Una volta la laurea offriva un salvacondotto per esercitare la professione, sino all’età della pensione: ma questa ormai è storia. Al giorno d’oggi, la conoscenza deve essere continuamente rinnovata, e anche le professioni devono cambiare.”

La necessità di acquisire sempre nuove conoscenze, per poter galleggiare sul mondo del lavoro, unita al rapido invecchiamento delle tecniche di ieri, producono ignoranza e alimentano il mercato dei vari “corsi professionali” e “di aggiornamento”.

Il concetto di “lifelong education” o “educazione permanente”, è frutto di questa situazione e tende a diventare una necessità per la gran parte delle categorie lavorative.

Il rischio costante, che ne deriva, è quello di essere “esclusi dal gioco” e “buttati fuori bordo”, di subire la perdita del lavoro, sia a livello individuale che come azienda. Tutto questo alimenta l’ansia di vivere.

Se poi si considera questo fenomeno su scala mondiale, rileviamo che è su questa base che si fonda la differenza tra Terzo Mondo e Mondo Occidentale.

Quante più conoscenze, tecniche soprattutto, saranno necessarie per affrontare il mondo del lavoro, tanto più si allargherà il gap tra i due mondi, creando e aumentando ingiustizie sociali, con tutti i possibili, devastanti, effetti collaterali.

 Istruzione pubblica vs. privata

Il discorso diventa politico e si concentra sulla scelta se gestire l’istruzione a livello statale o lasciarla al mercato “privato e libero”. Quest’ultimo è rappresentato dalle scuole professionali e di specializzazione, gestite come aziende, senza nessuna “mission” sociale.

Negli Stati Uniti, solo il 19 % di coloro che appartengono alle classi sociali meno abbienti, riesce a completare i propri studi e ottenere un diploma. Se invece osserviamo classi sociali con maggiore reddito, questa percentuale sale al 80 %.

Se il “mercato dell’insegnamento” viene affidato alle scuole private a pagamento, e lo Stato non interviene, assisteremo ad un sempre maggiore aumento delle ingiustizie sociali e di tutte le tensioni che ne derivano.

 Empowerment

Contro questo fenomeno dell’ignoranza, che produce poi abbandono della sfera politica, la Commissione delle Comunità Europee, già nel 2001, ha ribadito la necessità di creare, a livello dei vari Stati, sotto la gestione dei diversi Ministeri dell’Istruzione, uno spazio dedicato all’apprendimento e all’aggiornamento. Questo impegno dei singoli Stati sarà coordinato dalla Comunità Europea, che lo manterrà tra i suoi obiettivi prioritari.

Una gestione pubblica dell’istruzione, realizzata in un contesto europeo democratico, produce il

cosiddetto “enablement” o “empowerment”.



Secondo Bauman, “un autentico empowerment, richiede che si acquisiscano non solo le abilità necessarie, per giocare con successo un gioco progettato da altri, ma anche dei poteri per influenzare gli obiettivi, le poste e le regole del gioco: non solo le abilità personali, ma anche i poteri sociali.

(      ) L’empowerment è la ricostruzione dello spazio pubblico progressivamente abbandonato, in cui

gli uomini e le donne possano impegnarsi, in una continua traduzione tra ciò che è individuale e ciò che è comune, tra interessi, diritti e doveri, privati e pubblici.”

Per Bauman, se la sfera pubblica e sociale deve rinascere nel mondo occidentale, oltre alle abilità tecniche, abbiamo fortemente bisogno di “capacità di interazione con gli altri – di dialogo, di negoziato, di raggiungimento della comprensione reciproca e di gestione o risoluzione dei conflitti, inevitabili in ogni situazione della vita collettiva.” Dobbiamo cioè acquisire delle competenze in materia di cittadinanza attiva.

 Il consumatore è nemico del cittadino

Ma, osserva Bauman: “Il consumatore è nemico del cittadino (.... ) e, ovunque, nella parte sviluppata

e opulenta del pianeta, si moltiplicano i sintomi dell’allontanamento delle persone dalla politica, della

crescita della apatia e del calo di interesse per il funzionamento del processo politico.”

“Il mondo vuole essere ingannato”, scriveva Theodor W. Adorno, ma la democrazia è in pericolo, quando i cittadini non riescono a tradurre le proprie ansie e difficoltà personali, sotto forma di azioni democratiche collettive e preoccupazione a livello pubblico e politico.

Parafrasando una frase di Pierre Bordieu, colui che non comprende il presente, non può pensare di controllare il futuro. Dobbiamo imparare a pensare in modo diverso, da come siamo stati abituati finora.

 Mercato globale

I mercati dei capitali e delle merci si sono trasferiti in “un nuovo spazio, socialmente extraterritoriale”, ben più forte dello spazio del singolo Stato Nazione, e per affrontare questa nuova situazione sono necessari strumenti diversi da quelli finora adoperati.

Altrimenti, per la maggior parte dell’umanità, la globalizzazione significherà un netto e progressivo deterioramento delle condizioni di vita, accompagnato da continua insicurezza e ansia esistenziale.

 Nuove soluzioni

Le condizioni necessarie per la sopravvivenza dell’umanità non sono più divisibili e gestibili a livello locale o statale. Se le nostre difficoltà sono originate da problemi planetari, sono necessarie soluzioni planetarie.

Lo spazio pubblico dello Stato Nazione è stato allargato a tutto il mondo: come osserva Bauman, “il

dramma contemporaneo è vasto come l’umanità, clamorosamente e decisamente globale”.

A questa situazione si può opporre la logica della “responsabilità planetaria” che, per Bauman, significa “il riconoscimento del fatto che tutti noi, che viviamo su questo pianeta, dipendiamo gli uni dagli altri, per il nostro presente e il nostro futuro; che nulla di ciò che facciamo, oppure omettiamo di fare, può essere indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può più cercare e trovare un riparo privato, dalle tempeste che possono nascere in qualsiasi parte del globo”.

E’ quindi indispensabile creare un nuovo tipo di “cornice globale”, che impedisca alle iniziative economiche, in qualsiasi luogo sulla Terra, di seguire soltanto il profitto, ignorando gli effetti e i danni collaterali e trascurando l’impatto sociale dell’equilibrio costi e risultati.

Come sarà questa nuovo modo di pensare? Secondo Bauman “non possiamo conoscere i contorni e la forma che assumerà. Tuttavia possiamo essere certi che la forma non ci apparirà familiare. Essa sarà diversa da tutto ciò che per noi è consueto”.



Thomas Leoncini e "Nati liquidi" -

 Il libro scritto con Zygmunt Bauman

Questa opera  riguarda un dialogo fra Leoncini e Bauman, il quale,  grazie alla sua capacità di parlare a tutti con un linguaggio comprensibile e al tempo stesso mai riduttivo, ha spiegato la postmodernità attraverso l'illuminante immagine di una «società liquida» : che ha abbandonato la comunità per l'individualismo, convinta che il cambiamento è l'unica cosa permanente e che l'incertezza è l'unica certezza.
Queste sono le pagine a cui al momento della morte Zygmunt Bauman stava lavorando. Un dialogo con un giovane che ha esattamente sessant'anni meno di lui.
Nello scambio con Thomas Leoncini, Bauman affronta per la prima volta il mondo delle generazioni nate dopo i primi anni '80, quelle che a una società liquida e in continuo mutamento appartengono da nativi. E, come sempre, stimolato dal dibattito, sa cogliere la realtà nella sua dimensione più vera e profonda, persino nei fenomeni considerati più effimeri.
La trasformazione del corpo, i tatuaggi, la chirurgia estetica, gli hipsters, le dinamiche dell'aggressività (e in particolare il fenomeno del bullismo), il web, le trasformazioni sessuali e amorose vengono analizzati in questa breve folgorante opera pop, capace di coinvolgere sia coloro che, a vario titolo, hanno a che fare con i giovani sia i moltissimi lettori di Bauman.
Questa è l'ultima lezione del più grande sociologo e filosofo della contemporaneità

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Nati liquidi.

Trasformazioni sulla pelle.

Tatuaggi, chirurgia plastica, hipster.

Thomas Leoncini:

I giovani sono la fotografia dei tempi che cambiano. Impossibile non amarli e non odiarli contemporaneamente. Sono infatti quello che più amiamo del nostro «essere stati», ma anche ciò che di riflesso detestiamo perché non è stato eterno, ma solo fluttuante, liquido. Quando oggi analizziamo l’essere giovani siamo vittime di un relativismo culturale mancato, impossibile da esercitare efficacemente solo perché non esiste in funzione di un «noi» esterno che ci guarda all’ingresso dell’ego. Il nostro sguardo ai giovani è uno sguardo da persone liquefatte, che hanno inevitabilmente mutato i propri confini: siamo frutto di ciò che le circostanze della vita hanno fatto di noi. Di quel noi che però oggi non è più parte del nostro presente e quindi altro non può fare, se non limitarsi ad auto-osservarsi sulle facce degli altri. Se è vero che la mente viaggia per schemi culturalmente orientati che il nostro cervello imposta per rispondere con rapidità a ogni evento situazionale (e la psicologia cognitiva dice questo), è altrettanto vero che spesso la malsopportazione dei giovani passa anche attraverso il rimpianto di non aver sfruttato, capito, osservato a dovere la nostra vita precedente prima di finire inconsapevolmente in quella attuale.

E quando oggi guardiamo un ragazzino, magari alla fine del liceo, non lo guardiamo più con quegli schemi mentali che avevamo alla sua stessa età, ma con i nostri schemi totalmente liquefatti, quelli di persone diverse, come altri da ciò che eravamo.

Detto ancora più semplicemente: le caratteristiche che i giovani mostrano come pregnanti del presente sono per noi irriconoscibili, sia come individui figli del nostro desiderio attuale di autoaffermazione, sia in quella realtà spesso sottovalutata ma fondamentale perché pervasiva e totalmente invadente degli sguardi: la moda estetica.

«Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive», scriveva Nietzsche, e i giovani rappresentano in questo il mutamento di massa per eccellenza degli stili e degli interessi legati al tempo presente, quello che anche gli antropologi si sono accorti essere il più importante elemento della loro scienza di confine, incompleta e irrealizzata nella sua frammentata interezza per definizione stessa, tanto da trasformare l’antropologia da fisica, biologica e paleoantropologica ad antropologia culturale e sociale. E i giovani sono i più rappresentativi esemplari di quello che saremo, oggi e domani. Già Aristotele definiva l’uomo incompleto.

Ma il desiderio di completamento (vano e illusorio, certo) è presente fin dagli albori della civiltà. Allora che cosa, meglio del nostro corpo, è luogo di messa in scena del sé? Il senso estetico, non lo dimentichiamo, è in parte certamente soggettivo e oggettivo, ma anche soprattutto culturale e collettivo.

Spesso si discute del fenomeno estetico come della moda più rappresentativa dell’età moderna, ma le mode sono antropopoietiche,a fanno parte di un essere umano che costruisce consapevolmente il suo essere umano. Fin dalla sua comparsa l’uomo si è rifiutato di lasciare il proprio corpo così com’è e si è sempre preoccupato, più o meno in base alla cultura dominante, di intervenire su di esso. Anche lavarsi tutte le mattine altro non è che una rappresentazione del rapporto che l’uomo ha con il proprio corpo, la necessità di cambiarlo rispetto al naturale «scorrere delle cose»: l’antropologa inglese Mary Douglas, a questo proposito, scrisse infatti che l’igiene non è solo una questione di progresso scientifico.

Le mode estetiche, così come quelle culturali, sono mode dinamiche, quindi è particolarmente utile cominciare dal punto di scontro, dalla scintilla, dallo scoppio che porta alla genesi della riformulazione culturale, divampata dall’abbraccio (letale per i modelli del passato) fra modelli propri e modelli di massa. Questi ultimi hanno invaso il mondo adulto con imitazione, contagio oppure invecchiamento naturale.

Un esempio rappresentativo di una delle mode più attuali sono i tatuaggi: diffusi dai giovanissimi ai giovani, fino agli adulti.

Tre americani su dieci hanno tatuaggi e la maggior parte di loro non si ferma al primo. Questi sono alcuni dei risultati di un recente sondaggio firmato The Harris Poll, secondo il quale i tatuaggi paiono a dir poco indispensabili per i giovani statunitensi: quasi la metà dei Millennials (47%) e più di un terzo dei Generation Xers (36%) ne hanno almeno uno. Per Millennials si intende la famosa generazione Y, quella nata tra il 1980 e il 2000 – la genesi dei nativi liquidi attuali –, mentre per Generation Xers si intende quella che è nata approssimativamente da metà anni Sessanta a fine anni Settanta/primi anni Ottanta.

D’altra parte solo il 13% dei Baby Boomers (nati dal 1946 al 1964) ha un tatuaggio. Com’è noto, i confini in simili definizioni non sono mai statici, ma somigliano più a qualcosa di sfumato, liquido per restare in tema. Millennials e Generation Xers, con le loro alte percentuali, ovviamente allungheranno notevolmente il trend, e quindi fra qualche anno i dati sui cinquantenni, sessantenni, settantenni e ottantenni tatuati saranno a dir poco stravolti. Altri confronti interessanti che emergono dallo studio: l’habitat non ha alcuna influenza sugli americani se la moda è il tatuaggio. Che vivano in campagna oppure in città, non ci sono differenze significative o particolarmente rappresentative. Lo stesso vale per l’orientamento politico: repubblicani 27%, democratici 29%, indipendenti 28%.

Riguardo all’Italia i dati recenti arrivano dall’Istituto Superiore di Sanità: 13 italiani ogni 100 hanno tatuaggi. Calcolatrice alla mano, gli italiani tatuati sono circa sette milioni. Dai dati emerge che i tatuaggi nel nostro Paese sono più diffusi tra le donne (13,8% delle intervistate) rispetto agli uomini (11,7%). Il primo tatuaggio viene inciso a 25 anni, ma il numero maggiore di tatuati riguarda la fascia d’età fra i 35 e i 44 anni (29,9%). Circa 1.500.000 persone, invece, hanno tra i 25 e i 34 anni. Tra i minorenni la percentuale è pari al 7,7%. La maggior parte è soddisfatta del proprio tatuaggio (il 92,2%), tuttavia un’elevata percentuale, ben il 17,2%, ha dichiarato di voler rimuovere il proprio tatuaggio e di questi il 4,3% l’ha già fatto. Gli uomini preferiscono tatuarsi braccia, spalle e gambe, le donne soprattutto schiena, piedi e caviglie. Un tatuato su quattro (25,1%) risiede nel Nord Italia, il 30,7% ha una laurea e il 63,1% lavora. Il 76,1% si è rivolto a un centro specializzato e il 9,1% a un centro estetico, ma ben il 13,4% lo ha fatto al di fuori dei centri autorizzati. Anche nel caso italiano non si registrano particolari rilevanti relativi a una fede politica da imprimere come un marchio sulla pelle, come segno di appartenenza a un ideale mai tradito. Eppure chi non ricorda tutti quei tatuaggi come forza rappresentativa di coesione politica, di un credo? Oggi tutto questo è svanito, il «movente» politico del tatuaggio è un aspetto scomparso nella nostra modernità liquida.

Il tema politico oggi è stato infatti completamente ridisegnato – forse sarebbe meglio dire (con più pathos) «ristrutturato» – dall’individualità. E questo perché è stato stravolto alla radice il confine tra sfera pubblica e sfera privata. I nostri problemi privati invadono quotidianamente la sfera pubblica, ma ciò non significa che i nostri problemi diventino problemi degli altri. Tutt’altro: i nostri problemi restano nostri. Significa piuttosto che, grazie a questo nostro «accattonaggio» della sfera pubblica, distruggiamo letteralmente lo spazio di tutti quegli argomenti che sono davvero pertinenti alla sfera pubblica. Il risultato è la morte della politica intesa come agire politico del cittadino all’interno del dibattito pubblico. Il nativo liquido oggi si muove solo all’interno della propria individualità e cerca affannosamente di notorizzarla per invadere la sfera pubblica, illudendosi che possa esistere una soluzione universale e condivisa da tutti del suo essere incompleto.

Viene naturale chiedersi: perché i tatuaggi sono diventati una necessità per chi vuole omologarsi all’estetica della modernità liquida?

Zygmunt Bauman:

Tutte le modalità emulative di manipolazione dell’aspetto pubblico del proprio corpo (o di quella parte impressa sul proprio corpo della «rappresentazione del sé nella vita quotidiana», come preferiva definirla Erving Goffman) che hai così acutamente notato ed elencato sin qui, nuove, sorprendenti e votate a un destino effimero (benché, come osservava già oltre un secolo e mezzo fa Baudelaire, tutte mirino a catturare l’eternità in un attimo fuggente), nascono dall’umana, troppo umana rielaborazione moderna dell’identità sociale da dato a compito: compito che oggi ci si aspetta e si ritiene necessario e vincolante sia svolto dal suo portatore individuale, con l’impiego di modelli e materiali grezzi socialmente forniti, in una complessa operazione di «riproduzione creativa» che va sotto il nome di «moda».

Come ha suggerito quello che è stato probabilmente il maggiore storico del secolo scorso, Eric Hobsbawm, da quando il concetto di «comunità» iniziò a essere relegato ai margini del pensiero e della prassi sociale (e ne fu addirittura profetizzata l’estinzione da parte dell’allora assai influente sociologo Ferdinand Tönnies e della moltitudine dei suoi seguaci otto-novecenteschi) comparvero il concetto di «identità» e la prassi dell’«identificazione del sé», a colmare il vuoto che la sua preconizzata scomparsa avrebbe aperto nelle vigenti routine di collocazione e classificazione sociale.

Thomas Leoncini:

Comunità e identità sono separate da un limite che spesso nella nostra società pare sia invalicabile…

Zygmunt Bauman:

La differenza tra comunità e identità è formidabile. In linea di principio, la prima è categorica e coercitiva, in quanto determina e definisce previamente il casting sociale dell’individuo, l’altra si presume sia «liberamente scelta», una sorta di «fai da te». Questo ricollocamento concettuale, tuttavia, non elimina tanto la comunità dai processi di collocazione sociale e sua relativa espressione, quanto mira a riconciliare le (dovremmo dire inconciliabili?) sfide dell’«appartenenza» con l’autodefinizione abbinata all’autoaffermazione.

È da qui che derivano l’inclinazione endemicamente, insanabilmente generatrice di conflitti, le complesse dialettiche e le sorprendenti dinamiche, la capacità creativa e l’irreparabile fragilità del fenomeno moda; ed è da questo che esse sono sostenute e alimentate.

A mio avviso, nessuno ci ha fornito una più dettagliata e sorprendentemente ancor sempre attuale vivisezione della moda come prodotto (per sua natura sollecitato a un incessante rinnovamento) di quella dialettica di appartenenza e individualità, di Georg Simmel, che scrisse e pubblicò a cavallo tra Otto e Novecento, cioè nella fatidica era del passaggio da una società di produttori a una società di consumatori: quella da noi ancor oggi riprodotta mentre a nostra volta ne siamo riprodotti, forgiati e affinati.

Thomas Leoncini:

Quando si guarda una partita di calcio è difficile stabilire se salta prima all’occhio una palla che rimbalza oppure i tatuaggi dei calciatori. Ma anche la barba da hipster, che ora pare vada un po’ più corta rispetto a pochi anni fa, altra tendenza internazionale che sta addirittura facendo riaprire le botteghe ai barbieri.

Zygmunt Bauman:

I campi da calcio sono oggi i luoghi al mondo più massicciamente e regolarmente frequentati. Non sorprende che chi voglia trovare una possibile soluzione all’universale problematica di cui qui discutiamo guardi in quella direzione, investendovi speranze di imbattersi in conclusioni affidabili, in virtù del mero numero degli (appassionati e perlopiù soddisfatti) frequentatori.

E che dire del corpo come luogo sempre più prediletto su cui collocare i segni di speranze e aspettative, così che l’irrisolvibile dilemma di coniugare appartenenza e autoaffermazione, permanenza e flessibilità/manipolabilità dell’identità trovi soluzione, o perlomeno si avvicini il più possibile a una soluzione? L’abbigliamento segnala la propria capacità e disponibilità a rinunciare ai simboli dell’identità attuale a favore di altri, e all’istante; consente e dimostra addirittura la propria capacità di incarnare parallelamente una serie di identità diverse.

I simboli di decisioni identitarie incisi sul proprio corpo suggeriscono, al contrario, che l’identità che essi implicano è – per il soggetto portatore – un impegno più serio e duraturo, e non solo un capriccio momentaneo. Il tatuaggio, miracolo dei miracoli, segnala al contempo l’intenzionale stabilità (forse anche l’irreversibilità) dell’impegno e la libertà di scelta che contraddistingue l’idea di diritto all’autodefinizione e al suo esercizio.

Thomas Leoncini:

In diverse zone del mondo, penso in particolare all’Africa, un uomo senza scarificazioni è considerato una nullità a tutti gli effetti. Come scrisse Giorgio Raimondo Cardona nel 1981, «per i Bafia del Camerun un uomo senza scarificazioni non è diverso da un maiale o da uno scimpanzé». Inoltre un altro aspetto fondamentale, se si indagano le «mode», è come sia diverso per molti popoli il diventare uomo dall’essere donna. L’essere uomo è conquista, giudizio finale dopo un lungo esame sudato. L’essere donna è un inevitabile percorso di routine, con esito d’esame scontato. Almeno la sufficienza garantita per tutte. Di fronte a frasi come quella appena citata siamo così propensi a giudicare male l’altra faccia della cultura globale, e questo, a mio parere, solo perché ci dimentichiamo il relativismo culturale identificato come pilastro fondante dell’antropologia contemporanea da Claude Lévi-Strauss nei suoi Tristi tropici. Il relativismo culturale è l’atteggiamento che ritiene che comportamento e valori per essere compresi vadano considerati nel loro contesto complessivo entro cui prendono vita e forma. Siamo critici a casa nostra e anticonformisti a casa d’altri, ed è per questo che, se anche andiamo in Camerun e osserviamo pratiche come scarificazioni abituali, cannibalismo, riti di magia, non ci sconvolgiamo più di tanto perché messi in pratica dall’ altro. Poi anche il concetto di controllo culturale (per citare la teoria di Roger Keesing) ci influenza enormemente: vediamo e osserviamo solo le caratteristiche del dominante e quasi mai quelle della minoranza.

Tornando alle scarificazioni e ai tatuaggi, il concetto è: più soffri per raggiungere il tuo status (in questo caso fortemente permeato dall’identità di genere), più sei degno di portarne il marchio, più hai l’onore di farne parte. Questa necessità di «incidere» con cosciente dolore il proprio corpo, quasi fosse una flagellazione con lo scopo di ottenere una nuova identità, non la vedi paragonabile, almeno inconsciamente, all’esigenza dell’uomo moderno di tatuarsi?

Zygmunt Bauman:

Sì, credo tu abbia ragione, e sotto più profili (benché, se vuoi trovare degli antecedenti medioevali al tatuaggio, guarda piuttosto al brandingb – e anche a quello con le dovute cautele – non alla flagellazione!).

Negli ultimi decenni, il dibattito intorno alla questione della dialettica della moda è stato condotto, nelle scienze sociali e in psicologia, in stretta connessione con la cosiddetta «svolta dell’embodiment». E in effetti, dove l’intreccio tra appartenenza e individualità, permanenza e transitorietà – le due contraddizioni formative che stanno alla base del fenomeno moda – trova manifestazione più piena e al tempo stesso più intrusivamente visibile che nel nostro continuo lavorìo sulla rappresentazione dei nostri corpi, o perlomeno nella quantità di pensiero ed energie che tendiamo a investirvi?

Thomas Leoncini:

Tatuaggi e barba, ma ovviamente non solo. Un altro pilastro portante della moda contemporanea è il ricorso sempre più continuativo alla chirurgia plastica. Sul suo significato nella nostra società ha avuto buon seguito anche in ambito accademico la teoria di France Borel, secondo cui la chirurgia estetica, soprattutto se reiterata, è la manifestazione più violenta e camuffata della tendenza alle automutilazioni, nascosta sotto la copertura della medicina ufficiale. L’individuo non accetta il proprio corpo così com’è e parallelamente cerca anche uno sfogo per la propria esigenza di «autodistruzione» (Freud la chiamò pulsione di morte). Attraverso la «maschera» della medicina ufficiale, stando a tale tesi, la persona può soddisfare questi suoi due bisogni e al tempo stesso sentirsi parte della cultura dominante, che vuole creare una forma di bellezza su canoni prestabiliti e identificati come i migliori. La cultura dominante è quindi l’arma che legittima attraverso la «moda» la sinergia «autodistruzione» e «umanizzazione» della bellezza, verso lo stereotipo del modello di bellezza ideale.

Zygmunt Bauman:

Noto che (e non posso contraddirti) prendi le attuali manie per i tatuaggi e il calcio, complici anche la chirurgia plastica e la barba mai (per ora) definitivamente più corta o più lunga, come la rappresentazione chiave delle correnti che dominano l’odierno scenario della storia della moda e come il terreno di gioco preminente su cui il gioco della moda viene attualmente sperimentato, inscenato e reso pubblicamente visibile e accessibile all’appropriazione e all’emulazione.

Thomas Leoncini:

Direi che sono perlomeno le trasformazioni più eclatanti, quelle che coinvolgono con maggiore evidenza un gran numero di «masse» attuali. Sfogliando gli ultimi dati relativi alla chirurgia estetica, firmati e diffusi dall’ASPS (American Society of Plastic Surgeons), fra gli adolescenti americani (13-19 anni) la percentuale di ragazzi e ragazze che ne fanno uso aumenta di almeno l’1% ogni anno.

Ci sono dati molto curiosi: sempre più giovani odiano le proprie orecchie. Ben il 28% dei giovanissimi che si sottopongono a interventi lo fa nell’ambito dell’otoplastica, e il trend è in aumento del 3% costante da qualche anno. L’orecchio è un organo particolare, e forse la natura del disagio può tratteggiarsi entro due spiegazioni: una psicologica – ma forse anche un po’ troppo metafisica – (l’orecchio non ci costringe forse ad ascoltare gli altri anche se non vogliamo?) e una prettamente fisiologica. Ma anatomicamente cos’hanno le orecchie che non va?

Zygmunt Bauman:

La supposizione che «psicologicamente l’orecchio ci costringa ad ascoltare gli altri» mi pare inverosimile e forzata. Mi focalizzerei piuttosto sulle orecchie come parte del corpo che ne aggetta nel modo più importuno, e quindi anche più irritante: dopo tutto, lo fanno ovviamente senza chiedere il permesso del loro proprietario, e men che meno dietro suo comando! E quindi, se differiscono dal modello oggi preferito (cioè quello momentaneamente di moda), forniscono una prova patente dell’umiliante inadeguatezza del loro proprietario e della sua negligenza verso il dovere di controllare il suo aspetto, perlomeno quello che deve o può essere pubblicamente visibile.

Thomas Leoncini:

Gli ultimi dati relativi alla chirurgia plastica negli adulti dicono invece questo: dal 2000, l’ASPS ha mostrato statistiche con una notevole crescita degli interventi: la mastoplastica additiva al seno è in crescita dell’89% (99.614 nel 2015 rispetto ai 52.836 nel 2000), il lifting ai glutei è aumentato del 252% (4.767 nel 2015 rispetto ai 1.356 nel 2000), il lifting delle parti intime è aumentato del 3.973% (8.431 nel 2015 rispetto ai 207 nel 2000). Cambiano le esigenze con l’età, ma il business della chirurgia plastica pare sia padrone dei tempi.

Zygmunt Bauman:

Non c’è business come il business della chirurgia plastica…c La cultura contemporanea della società dei consumatori è governata dal precetto «se puoi farlo, devi farlo». L’idea di non avvalersi delle opportunità disponibili di «migliorare» l’aspetto del proprio corpo (leggi: avvicinarlo alla moda attualmente dominante) viene fatta sentire come un qualcosa di ripugnante, spregevole; tende a essere ampiamente vista come degradante, lesiva del valore e della stima sociale del «colpevole». La consapevolezza di questo stato di cose è anche, di conseguenza, un colpo ferale, umiliante e doloroso, alla propria autostima.

Questo stato di cose, lo ripeto, è strettamente connesso al nostro essere una società di consumatori: se il succitato precetto non venisse osservato in maniera massiccia e intensiva, l’economia consumista andrebbe in crisi, se non addirittura crollerebbe, non riuscendo a perpetuarsi. L’economia consumista prospera (o meglio sopravvive) grazie al magico stratagemma del convertire la possibilità in obbligo o, per dirla con il lessico degli economisti, l’offerta in domanda. Il fenomeno della moda – nella fattispecie del determinare i modelli vincolanti dell’aspetto esteriore del corpo in base alle opportunità disponibili fornite dall’industria della cosmesi e della chirurgia plastica – svolge un ruolo cruciale nel far sì che tale miracolosa conversione proceda senza intoppi.

Ma fondamentalmente stiamo ancora muovendoci sullo stesso terreno da noi già battuto quando tentavamo di affrontare le questioni sollevate dalla tua prima domanda. Tutto ciò che abbiamo detto sulle cause ultime dell’odierna mania dei tatuaggi vale anche per la mania degli interventi cosmetico-farmaceutico-chirurgici – tra parentesi, nel nostro mondo caratterizzato dalla sostituzione della comprensione autentica, profonda, con il «navigare» (surfing), entrambe queste manie operano sulla superficie (surface) del corpo, e ben pochi oggi criticherebbero una tale superficializzazione. Alla base di entrambe le voghe/mode/infatuazioni troviamo la dialettica di appartenenza e autodefinizione e le logiche della moda e dell’embodiment. Un altro commento si impone, però: le tue cifre segnalano – è questo è interessante – un’instabilità, e quindi la possibilità di un cambiamento, se non addirittura di un’inversione di tendenza. Gli indici statistici possono salire o scendere (di nuovo, mossi dalle alterne vicende dell’economia consumista, con la sua non certo disinteressata pulsione a inventare sempre nuovi mercati per sempre nuovi prodotti mirati a soddisfare sempre nuove esigenze). I fenomeni qui registrati sono molto probabilmente temporanei; odierni modi di darsi di trend più durevoli, che vantano una maggiore aspettativa di vita.

Thomas Leoncini:

Qualche altro aspetto della chirurgia plastica che merita attenzione: le ragazze molto giovani di oggi sono spesso (e sempre più) orgogliose di aver subito un intervento estetico. Fino a pochi anni fa non era questa la tendenza, anzi mi sento di poter affermare che il trend fosse diametralmente opposto. Basta entrare in qualsiasi social network, in particolare Instagram, e digitare hashtag come #lips: si assiste a un elogio indiretto della chirurgia plastica che ha come teatro principale la messa in scena della ricostruzione della ragazza secondo norme molto precise e standard di bellezza della modernità liquida. Se la bellezza è una ricerca di umanità, questa ipotesi è la prova che l’individualità nella modernità liquida sta cercando di affermarsi anche in questo campo. Mi spiego: chi è orgoglioso di una ricostruzione plastica che tende a un ideale estetico dell’umanità (quasi a un ideale estetico di comunità) è forse davvero orgoglioso della propria individualità. Ma sto parlando di quell’individualità che ha permesso alla giovane di cannibalizzare il suo individuo de jure, quello dei diritti e dei doveri, a spese dell’individuo de facto, quello che pensa solo alla propria capacità di autoaffermazione.

L’orgoglio femminile di aver subito interventi di chirurgia plastica può anche essere dovuto all’ostentazione di ricchezza? Una dimostrazione di disponibilità economica personale. Potrebbe forse venire presto il tempo in cui le ragazze misureranno il tempo con la misura della bellezza, e allora la bellezza (e quindi il tempo) grazie alla chirurgia potrà tornare indietro…

Zygmunt Bauman:

Fai bene ad aggiungere alla nostra lettura di questi fenomeni il fattore ricchezza! Una forma fisica impeccabile, patinata, perfetta, implica, tanto quanto (se non più di) abiti acquistati nelle più rinomate (e quindi anche più costose) boutique alla moda, uno status economico elevato e un portafoglio ben «gonfio»; e quindi una posizione sociale superiore, e la pubblica stima che vi si accompagna. Proclamano ad alta voce, e in un linguaggio inequivocabile: «Io posso permettermelo, a differenza di te, poveretto! Traine le dovute conclusioni, sappi qual è il tuo posto, e restaci!!» Questo a me pare però un fattore piuttosto sovra-gender o neutro dal punto di vista del genere, e lo stesso vale per le «ragazze molto giovani di oggi» orgogliose di subire un intervento di chirurgia plastica analogo a quello subito dalle loro sorelle maggiori o compagne di scuola (un fenomeno assimilabile a quello dei «ragazzi molto giovani» orgogliosi di fumare nei bagni della scuola: un passo verso l’età adulta che molti, la maggior parte forse, dei bambini di ambo i sessi sognano, e il cui avvento desiderano fortemente accelerare, per godere di quei privilegi che – in quanto bambini – normalmente si vedono rifiutare).

Un altro fattore, questo sì palesemente legato al genere, potrebbe e dovrebbe piuttosto essere usato nella spiegazione del fenomeno che segnali. Quando gli editori di Playboy stavano per lanciare sul mercato Playgirl, la rivista destinata a un pubblico femminile che intendeva esserne la controparte, si accese un vivace dibattito pubblico in merito a che genere di foto le potenziali lettrici avrebbero preferito: i rappresentanti più avvenenti del sesso opposto (esattamente come i lettori uomini di Playboy) o i più potenti e influenti (nel caso, probabile, che i due tipi di uomo non coincidessero)? Ricercatori appositamente interpellati in merito e il pubblico dei lettori convennero sul verdetto: la seconda opzione era la più popolare, e quindi probabilmente la più desiderabile per le lettrici.

Nel complesso, se sulla scala della desiderabilità le donne tendono a segnare punti in base alla loro bellezza, su quella stessa scala gli uomini tendono a essere valutati principalmente in base alla loro idoneità (fitness); partendo dal presupposto che la maggior parte degli uomini preferisce partner femminili, e la maggior parte delle donne partner virili, ci si aspetterebbe che la fitness – intesa sia come forma fisica sia come idoneità ad affrontare le sfide della vita e a proteggere la partner dagli incerti e dai danni che tali sfide possono generare (cioè doti come industriosità, potere, destrezza, prontezza, coraggio, energia, intraprendenza, vigore, vitalità) – battesse con estrema facilità le attrattive di un bel corpo. L’industria cosmetico-plastica, tuttavia, è mirata a soddisfare le esigenze femminili, e recluta la propria clientela anzitutto, benché non esclusivamente, tra la metà femminile della popolazione.

Thomas Leoncini:

Quindi l’identikit dell’uomo ideale per la donna contemporanea della modernità liquida è un uomo ricco? La moda dell’uomo ricco accanto a donne più giovani e avvenenti è destinata a durare in eterno?

Zygmunt Bauman:

Non saltiamo a conclusioni affrettate, Thomas! E niente scorciatoie nei ragionamenti, per favore! Dopo tutto, tu basi la tua conclusione generalizzante su un campione molto ristretto, e per di più non randomizzato, ma arbitrario: le lettrici di Playgirl. La mia sensazione è che in linea di massima esso coincida con il campione (altrettanto ristretto) della clientela dell’industria cosmetico-plastica; se tale sensazione è corretta, potrebbe in parte contribuire a spiegare l’eclatante prevalenza di donne tra quella clientela, ma senz’altro non basta a generalizzare in merito al fatto che l’«identikit dell’uomo ideale per la donna contemporanea» sia «un uomo ricco». Inoltre, su quali basi profetizzi che «la moda dell’uomo ricco accanto a donne più giovani e avvenenti è destinata a durare in eterno»?!

Thomas Leoncini:

Stiamo parlando di ragazze, di donne. E non di ragazzi o di uomini. Questo non perché gli uomini non ricorrano alla chirurgia estetica, ma perché tra i maschi è molto più raro l’orgoglio per aver subito un intervento. Ma come mai succede questo? Eppure oggi i ragazzi sono ambiziosi esteticamente proprio come le ragazze, a volte anche di più… 

 

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Trasformazioni dell’aggressività.

Bullismo.

Thomas Leoncini:

Steven Spielberg, Barack Obama, Rihanna, Miley Cyrus, la principessa Kate Middleton, Madonna e Bill Clinton hanno qualcosa in comune: ai tempi della scuola sono stati vittime di bullismo e hanno subito numerosi episodi di violenza. Proviamo ad analizzare il bullismo, partendo però da un aspetto inusuale. Secondo il pensiero di Arnold van Gennep, tra i più noti studiosi di antropologia del Novecento, le principali caratteristiche dei riti di passaggio sono costruite, assemblate e formate attorno a tre stadi. Il primo è il periodo di separazione dell’individuo dalla comunità (quello chiamato dei riti preliminari, che permette al soggetto di chiudere con la condizione precedente). A questo segue il periodo di margine (quello chiamato di liminalità) in cui avviene una vera e propria sospensione di status sociale; il soggetto è infatti in una sorta di limbo che può rappresentare un pericolo, sia per lui sia per la stabilità sociale, perché può creare un nuovo spirito comunitario, una nuova communitas, come sosteneva l’antropologo scozzese Victor Turner. Basti pensare che molte delle recenti rivoluzioni sociali anticonformiste hanno visto la propria genesi attraverso situazioni di liminalità: gli hippie degli anni Sessanta sono ormai irriconoscibili antenati dei giovani punkabbestia o dei dark, ma a loro volta questi sono gli antenati degli emo, che oggi forse hanno solo gli hipster come ulteriore trasformazione liquida liminale. Il terzo è lo stadio dell’aggregazione, quello chiamato tecnicamente dei riti postliminari, perché il soggetto torna a tutti gli effetti nel suo habitat naturale come parte integrante e nuovamente connessa, ma con nuove caratteristiche individuali, che diventano vive quando si rapportano a quelle sociali.

Separazione, marginalità e aggregazione, dunque. Questi stadi, se li cerchiamo in molte situazioni dove è diffuso il fenomeno del bullismo, sono spesso rappresentativi anche del percorso che obbligatoriamente la vittima di bullismo subisce. Di fronte agli attacchi del bullo, soprattutto se reiterati, la vittima si sente psicologicamente (e spesso anche fisicamente) «separata» dagli altri.

Questa vita a parte della vittima non solo stravolge la sua quotidianità, coinvolgendo sia la vita scolastica sia quella degli affetti, ma porta anche in alcuni casi (non rari) a un mutamento delle amicizie, dei contatti quotidiani. Può creare quindi un nuovo nucleo minimo di appartenenza sociale, e questo coincide con la fase di margine, quella in cui come risposta al disagio molte vittime del bullismo escogitano modi per non soffrire più, per trovarsi un’altra identità, visto che quella precedente aveva portato come risultato molta sofferenza. Dopo (o durante) tutto ciò è però inevitabile – perché è la società che ce lo impone – un ritorno alla base, una nuova aggregazione; quindi i rapporti con i compagni di classe e con l’istituzione scolastica in generale devono essere obbligatoriamente recuperati per non restare indietro ed evitare insuccessi e bocciature. Ma alla conclusione di questo percorso, mettiamo di qualche mese o nella peggiore delle ipotesi di qualche anno, la vittima di bullismo rientra nella società come persona nuova, come una persona che si porta dietro una nuova identità sociale, più complessa.

Il bullismo non violento fisicamente può essere inteso come l’equivalente di un rito di passaggio necessario per alcuni ragazzini? I bulli nascono bulli perché il bullismo fa parte del loro «habitus»?

Zygmunt Bauman:

L’eminente sociologo e storico sociale ebreo tedesco, naturalizzato inglese, Norbert Elias coniò nel 1939 il concetto di «processo di civilizzazione», inteso non tanto come un’eliminazione dalla vita umana dell’aggressività, della coercizione brutale e della violenza (idea che probabilmente egli considerava meramente utopistica), quanto come – mi sia consentita l’espressione – uno «spazzarle tutte e tre sotto il tappeto»: rimuoverle dalla vista delle «persone civili», dai luoghi che è probabile esse frequentino, o fin troppo spesso anche solo di cui possano avere notizia, per trasferirle a «persone inferiori», a tutti gli effetti escluse dalla «società civile». Gli sforzi per conseguire tale effetto furono mirati all’eliminazione di comportamenti riconosciuti, valutati e condannati come barbari, rozzi, grezzi, scortesi, maleducati, sgarbati, impertinenti, ineleganti, sguaiati, villani, sconvenienti o volgari, e nel complesso grossolani e inadatti a essere usati da «persone civili», nonché degradanti e screditanti, se da loro usati. Lo studio di Elias fu pubblicato alla vigilia della più barbara esplosione di violenza dell’intera storia della specie umana, ma all’epoca in cui fu scritto il fenomeno del «bullismo» era quasi totalmente sconosciuto, o perlomeno non aveva ancora un nome. Quando, negli ultimi decenni, la violenza è tornata prepotentemente alla ribalta, e il linguaggio volgare si è insinuato nell’elegante discorso salottiero e proprio della scena pubblica, numerosi discepoli e seguaci di Elias hanno annunciato l’avvento di un «processo di decivilizzazione» e si sono industriati, facendo i salti mortali, a spiegare questo improvviso, inatteso capovolgimento della condizione umana, ma con scarso e insoddisfacente – poco convincente – risultato.

Voci più radicali si sono spinte ancora oltre: richiamandosi allo Spengler de Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes nell’originale tedesco, dove Untergang andrebbe forse reso più fedelmente con «caduta»), hanno suggerito che ciò che sta attualmente accadendo alla civiltà occidentale non è che un’ennesima ripetizione del modello che ogni civiltà, passata e futura, deve seguire nella propria storia. Avvalendosi delle sue peculiari metafore botaniche, Spengler presentava quel modello come una successione di primavera, con la sua creatività audace, perché naïf (molto più tardi George Steiner avrebbe suggerito che il privilegio di Voltaire, Diderot e Rousseau era consistito nella loro ignoranza, nel non sapere ciò che noi, ahimè, sappiamo); estate, con la sua maturazione di fiori e frutti; autunno, con il loro avvizzimento e caduta; e infine inverno, contraddistinto dal congelarsi e rapprendersi dello spirito creativo in esangue manierismo privo di creatività. Per quanto riguarda l’Occidente, il passaggio dalla civiltà (spirituale) alla civilizzazione (mondana, materiale, concreta, pratica) si verificò intorno al 1800: «In tali termini si distingue l’esistenza euro-occidentale di prima e dopo il diciannovesimo secolo, la vita in una pienezza e in una naturalezza, la cui forma nasce e si sviluppa dall’interno, in un unico slancio grandioso che dall’infanzia del gotico va fino a Goethe e a Napoleone; e quella vita tarda [autunnale], artificiale, senza radici, delle nostre grandi città, le cui forme sono tracciate dall’intelletto. […] L’uomo di una civiltà vive rivolto verso l’interno, quello di una civilizzazione vive rivolto verso l’esterno, nello spazio fra corpi e ‘fatti’».a

C’è dunque una scelta, che può e deve essere compiuta, tra proposte interpretative che discendono dalle altezze sofisticate, sublimi, e nelle loro intenzioni universalistiche della Geschichtsphilosophie, la filosofia della storia. In questa nostra conversazione, comunque, ci interessiamo di fattori più terra terra, prosaici, mondani e in larga misura localizzati, che animano e forgiano gli attuali sviluppi della nostra cultura, della nostra mentalità e dei nostri modelli comportamentali.

Thomas Leoncini:

E nella nostra modernità dove pensi stia andando lo sviluppo culturale?

Zygmunt Bauman:

Lo sviluppo che tu qui suggerisci di seguire è il ritorno della violenza, della coercizione e dell’oppressione nella risoluzione dei conflitti, a scapito del dialogo e del dibattito finalizzati alla reciproca comprensione e alla rinegoziazione del modus co-vivendi. Ritengo che in questo sviluppo un ruolo importante sia stato, sia e continuerà a essere svolto nel prossimo futuro dalla nuova tecnologia della comunicazione mediata; non come sua causa, ma come sua cruciale condizione agevolante.

Thomas Leoncini:

La prima testimonianza è di Michele, ormai trentenne: «Ho ancora gli incubi la notte, avevo dodici anni, ero molto timido e solitario. Tre dei miei compagni di classe mi hanno chiuso in bagno e hanno cominciato a picchiarmi, prima con le mani, poi con le scope e qualsiasi oggetto fosse presente nella stanza. Cinque minuti interminabili, umilianti e dolorosi. Uno di loro, mentre gli altri due mi picchiavano, si slacciò i pantaloni e mi pisciò addosso. Ancora oggi mi viene da piangere quando penso a quel giorno, e non solo per l’umiliazione immediata, ma per il fatto che il giorno dopo con mio padre ho denunciato l’accaduto al preside dell’istituto. Lui però mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto che queste cose succedono, che purtroppo i ragazzini di oggi sono così, ma questi fenomeni sono passeggeri, quindi nulla di cui preoccuparsi perché tutto sarebbe andato meglio già nei giorni successivi (uno dei tre era il figlio di un noto medico, molto ricco, della mia città). Ovviamente gli atti di bullismo nei miei confronti non cessarono e la situazione proseguì per tutto l’anno scolastico». Michele ci racconta di una spada a doppio taglio del bullismo, la stessa lama che incide e scende in profondità provocando il primo dolore e poi, non sazia, procura un nuovo dolore quando si ritrae, quando scompare dalla carne. Il preside della scuola (che non capisce cosa prova Michele) si trasforma a sua volta in un responsabile dell’esclusione sociale del ragazzo. Tu hai mai subito atti di bullismo?

Zygmunt Bauman:

Sì, eccome. In modo costante, quotidiano. Durante tutti gli anni di scuola a Poznanń, in Polonia, finché fuggii dalla mia città natale allo scoppio della guerra insieme agli altri due ragazzi ebrei della mia scuola. Ovviamente, all’epoca non sapevo ancora nulla di sociologia, ma ricordo di aver capito benissimo che essere vittima di bullismo era una questione di esclusione. Non sei come noi, non sei dei nostri, non hai diritto di partecipare ai nostri giochi, non giochiamo con te, se ti ostini a voler prendere parte alla nostra vita non stupirti se ti buschi botte, calci, offese, umiliazioni, mortificazioni.

Molto più tardi, quando iniziai a leggere libri di sociologia e imparai a pensare da sociologo, capii che l’esclusione di tre ragazzi ebrei in una scuola che contava parecchie centinaia di alunni era stata per i nostri persecutori l’altra faccia della medaglia della loro identificazione del sé. Un po’ più tardi ancora seguii il suggerimento del romanziere Edward Morgan Forster, Only connect: «Basta solo connettere»;b mi resi conto che designare un nemico e dimostrarne a tutti i costi l’inferiorità era l’inseparabile altra faccia della medaglia dell’identificazione del sé. Non ci sarebbe un «noi», senza un «loro». Ma fortunatamente, per rendere reale il nostro desiderio di comunità, apprezzamento e aiuto reciproco, ci sono «loro» – ed ecco che di conseguenza c’eravamo, dovevamo per forza esserci «noi» a manifestare il loro essere comunità, di nome e di fatto, e senza mai stancarci di ricordarlo a noi stessi e di dimostrarlo-riaffermarlo, provandolo agli altri intorno. A tutti gli effetti, l’idea di «noi» non avrebbe senso, se non abbinata a quella di «loro».

E questa regola, temo, non promette bene per il sogno di un mondo libero dal bullismo.

Thomas Leoncini:

Parli quindi di esclusione. Nella seconda testimonianza, infatti, è proprio il sentimento di esclusione che emerge con prepotenza.

Laura ha quindici anni e, a differenza di Michele, oggi non è ancora uscita dal problema del bullismo, come racconta lei stessa: «Non voglio andare a scuola perché i miei compagni mi fanno sentire diversa. Vorrei essere come loro, ma loro non me lo permettono. Se mi vesto come loro ridono di me, se mi impegno a imitare quello che fanno, poi mi disprezzano. I miei compagni dicono che sono una perdente, che non potrò mai avere amici o un fidanzato. E io comincio a credere che abbiano ragione. Non so quale sia il motivo per cui mi odiano così tanto, ma so che mi fa sentire troppo male (questo sopravvivere emarginata). Penso spesso al suicidio come soluzione al mio dolore».

Sembra che il bullismo del maschio differisca da quello femminile per molti aspetti. Per esempio, nella maggior parte dei casi, tra maschi viene utilizzata la violenza fisica, mentre tra femmine vince di gran lunga quella verbale e spesso silenziosa, ma marginalizzante.

Secondo gli ultimi dati dell’NCES, il National Center for Education Statistics,c uno studente americano su cinque è vittima di bullismo e, come indicano diversi studi internazionali, uno dei principali «moventi» dell’accanimento contro uno studente è la sua reale o presunta omosessualità, ma gli studi dicono anche altro: i ragazzi gay e le ragazze lesbiche hanno il triplo della probabilità di suicidarsi rispetto agli altri.

Di questo rischio parlava espressamente già qualche anno fa anche lo United States Department of Health and Human Services (HHS) di Washington, ossia il dipartimento della Salute e dei servizi umani.d Cosa ne pensi di tutto questo?

Zygmunt Bauman:

Personalmente non prenderei troppo sul serio le motivazioni che avanzano i bulli, maschi o femmine che siano, per spiegare il loro bullismo e la scelta delle loro vittime. Le motivazioni vanno e vengono, sull’onda delle mode del momento, ma il disagio esistenziale resta, e importunamente esige di essere alleviato, sfogando la pressione accumulata e prevenendone un ulteriore accumulo. Il bisogno di bullismo, e soprattutto di suoi oggetti e moventi, esiste da sempre e non finirà mai. In tempi remoti, a giustificazione del disagio esistenziale e della conseguente aggressività, si incolpava la possessione demoniaca, in altri tempi un matrimonio infelice o l’anorgasmia, in altri ancora lo sfruttamento sessuale da parte dei genitori, attualmente molestie sessuali subite nell’infanzia da parte di insegnanti, sacerdoti e il bisogno di celebrità; ora a essere colpevoli sono gli omosessuali. Ma hai dimenticato di menzionare i migranti, che attualmente lasciano di gran lunga indietro qualunque altro candidato…

Thomas Leoncini:

I migranti, caro Zygmunt, hai ragione. Un’altra nitida attualità. Molto più di duecento anni fa Immanuel Kant fece una banalissima osservazione che ho sentito menzionare più volte anche da te: si chiese che conseguenze potesse avere, in pratica, la forma sferica della terra. La più evidente di tutte, per noi nativi terrestri, è che abitiamo sulla superficie di tale sfera. Ma proviamo a immaginare cosa possa significare «spostarsi», «muoversi» da un punto all’altro di una sfera. Significa innanzitutto «accorciare» sempre di più le distanze con gli altri. Sì, perché muoversi lungo una sfera altro non è che ridurre in realtà quella distanza con il prossimo che inizialmente, con lo spostamento, si era tentato di allargare. E lo stesso Kant prosegue l’osservazione constatando che prima o poi (ma lo scrisse più di due secoli fa quindi potremmo definirci immersi sia nel «prima» sia nel «poi») finiranno gli spazi vuoti dove potranno avventurarsi quelli di noi che trovano troppo scomodi o stretti i luoghi già popolati dai propri simili. Ciò che si constata da queste osservazioni è che sia logico accettare l’imposizione stessa che ci fa la Natura, considerando l’ospitalità come indispensabile pilastro fondante della modernità.

Conversando del tema di cui parlavamo poco fa, il bullismo, mi è venuta in mente la vicenda di Kitty Genovese; è più di una storia sull’indifferenza, è un esempio utilizzato molto spesso in psicologia sociale per ricordare come l’essere umano tenda a spostare sulla responsabilità sociale collettiva la sua responsabilità personale, dimenticando che invece nella sua vita quotidiana è la forte individualità a invaderlo e a gestire i suoi rapporti sociali. Kitty Genovese era una donna di New York che fu accoltellata a morte vicino a casa sua, nel quartiere di Kew Gardens, distretto del Queens. Era il 1964, e il giorno successivo The New York Times dedicò lo strillo più importante della prima pagina a questo testo: «Trentasette persone hanno assistito a un omicidio senza chiamare la polizia».

La conclusione in soldoni? Eccola: un unico testimone che assiste a un evento tragico, e si accorge di essere solo, ha più probabilità di intervenire in soccorso piuttosto che un individuo che si rende conto di essere insieme ad altri, a una presenza collettiva di simili.

Senza entrare nel merito della storia e delle polemiche nate successivamente (poiché il fratello di Kitty Genovese ha cercato la verità e ha scoperto diverse incongruenze fra il lavoro della stampa e la realtà), il messaggio è chiaro: il pluralismo sembra spesso creare una modifica, seppur momentanea, una trasformazione dell’individualità, un’individualità più leggera. E il risultato finale non cambia: una povera ragazza massacrata in mezzo alla strada da un pazzo e tutti i cittadini che (probabilmente) guardavano la scena da dietro le loro tende; nessuno uscì di casa, nessuno la prima mezz’ora chiamò la polizia, nonostante gli urli della vittima. Luci accese dunque, e figure in controluce che fra loro si osservano da dietro i vetri spalmano la responsabilità ad agire (anche tu stai guardando, non solo io, perché tocca a me e non a te?) e inevitabilmente diminuiscono l’impatto personale che motiva allo start dell’aiuto. Quel giorno del 1964 fa parte dei tuoi ricordi più forti?

Zygmunt Bauman:

Io l’ho vissuto intensamente, il caso di Kitty Genovese, attraverso lo choc che riverberava dall’opinione pubblica illuminata di quei tempi – ben oltre l’ambiente accademico, costretto a rivedere più di una delle sue teorie, tacite o esplicite. Se non ricordo male, fu durante il dibattito che ne seguì, e che proseguì insolitamente a lungo, dato il panico morale suscitato, che sentii parlare per la prima volta del concetto di «spettatore»: le persone che vedono compiere il male ma distolgono lo sguardo e non fanno nulla per fermarlo.

Quel concetto mi colpì subito, forse come la categoria di gran lunga più importante tra quelle assenti dagli studi sul genocidio, e che reclamava di esservi assolutamente inserita.

Mi ci vollero vent’anni, tuttavia, per renderle la giustizia che meritava nell’ambito del mio personale tentativo di decifrare il mistero dell’Olocausto condotto all’apice della civiltà moderna. (Ricordiamo che la Genovese fu assassinata nel 1964, alle soglie di quella che venne percepita come una rivoluzione culturale che avrebbe rivalutato tutti i valori, come gli anni Sessanta sarebbero ben presto stati rubricati negli annali della storia culturale, e l’opinione pubblica colta trovò un altro argomento su cui focalizzare la propria attenzione; come ebbe a dire una volta, causticamente e solo in parte ironicamente, lo psicologo Gordon Allport, noi che lavoriamo nel campo delle scienze umane non risolviamo mai problemi, ci limitiamo a occuparcene sino alla noia… Ciò che Allport si dimenticò di dire, però, è che non tutti i problemi hanno una soluzione; molti non l’hanno, e omicidi gratuiti come quello della Genovese appartengono a tale categoria. I poliziotti che, come vediamo nei film polizieschi, cercano in primo luogo un movente, hanno un compito impossibile da svolgere, e così pure i pubblici ministeri, le giurie, i giudici.)

Ma retrospettivamente, con il senno di poi, possiamo dire che il caso Genovese mise in luce anche un altro fenomeno, destinato ad acquisire negli anni seguenti sempre più fosca importanza e sempre maggiore urgenza di inquadramento concettuale: quello del «male casuale» o «disi

Zygmunt Bauman:

Hai tratteggiato bene la tua storia del web: breve, sintetica ma densa di avvenimenti. In effetti, una combinazione di grandi aspettative e speranze frustrate sembra essere, a posteriori, il suo segno distintivo. Come giustamente suggerisci, il web è entrato trionfalmente nel nostro mondo promettendo di creare «un habitat ideale, politico e democratico»; ma dove ci ha aiutati ad arrivare? All’odierna crisi della democrazia e all’aggravamento delle divisioni e conflittualità politiche e ideologiche. In effetti, abbiamo accolto entusiasticamente la promessa della chance di una seconda vita, ma il mondo in cui tendiamo a condurre questa nostra seconda vita è un mondo di cyberbullismo e diffamazione. E, sì, l’avvento del web ha reso improvvisamente realistiche le nostre speranze di notorietà ma, avendola posta ingannevolmente alla nostra portata, l’ha resa quasi obbligatoria – benché con una chance di acquisirla pari a quella di vincere il jackpot di una lotteria.

Ma cominciamo dal principio, per poi passare in rassegna la tua domanda punto per punto. Propongo di iniziare dalla svolta veramente rivoluzionaria nella condizione umana prodotta passo a passo – nel corso di una sola generazione – dalla tecnologia informatica: dalle gigantesche strutture di cui, secondo i loro inventori e pionieri, l’installazione di circa una dozzina sarebbe bastata a soddisfare la totalità delle esigenze informatiche dell’umanità, alle miriadi di gadget, prima portatili, poi così piccoli da poter stare nel palmo di una mano (laptop, tablet, cellulari e qualunque altro aggeggio possa essere stato «lanciato sul mercato» prima che tu e io terminiamo questa nostra conversazione); in ogni momento, ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, alla portata dei miliardi di loro proprietari/utenti di ogni età, in qualunque situazione, in tasca o in borsa, ma la maggior parte del tempo in mano. Per quanto soli possiamo essere e/o sentirci, nel mondo online siamo potenzialmente sempre in contatto. Il mondo offline tuttavia non è scomparso, né è probabile che scompaia in un prossimo futuro; e a quel mondo offline, così denominato in contrapposizione al nuovo arrivato online, la suddetta prerogativa non si applica – come non si applicava quando quel mondo era l’unico che abitavamo, e il suo compagno/avversario non era ancora stato inventato –, vale a dire per la maggior parte (finora la quasi totalità) della storia umana.

Ma ora ci sono due mondi, nettamente distinti l’uno dall’altro, entità pienamente e veramente agli antipodi, e il compito di riconciliarli e forzarli a sovrapporsi è tra le competenze che l’arte del vivere del ventunesimo secolo esige che acquisiamo, facciamo nostre e utilizziamo. Precetti e regole di comportamento diversi, confini tracciati diversamente tra «ciò che andrebbe fatto» e «ciò da cui ci si dovrebbe astenere», e lessici e codici di comportamento – prescritti, usati, insegnati e appresi – diversi, dal momento che siamo destinati ad abitare entrambi i mondi, dividendo così le nostre ore, giorni (vite?) tra due distinti universi, codici comportamentali, modalità di convivenza e interazione. Gli esseri umani del ventunesimo secolo sono «di due mondi». A uno dei due, quello offline, appartengo. L’altro – il mondo online, che siamo indotti, sollecitati e allettati a costruire con i nostri modi e mezzi, avvalendoci degli strumenti, stratagemmi ed espedienti forniti dalla tecnologia informatica – è spesso enfaticamente presentato, e fin troppo spesso esperito, come se mi appartenesse. Posso, almeno in parte, progettarne forma e contenuti; posso cancellarne e bandirne quei frammenti indesiderati, scomodi, che mi creano disagio; posso monitorare performance e sbarazzarmi di quelle cose che non sono riuscite a soddisfare gli standard da me prefissati.

Per farla breve: online, a differenza di quanto accade offline, sono io ad avere il controllo: io sono il padrone, io comando (rule). Forse non ho la stoffa del direttore d’orchestra, ma decido io che musica si suona. Alcuni arguti osservatori hanno paragonato questa sensazione divina a quella che sopraffà un ragazzino lasciato solo in un negozio di dolciumi. Il problema però è: quali delizie quel ragazzino sceglierà e si godrà?

Qui, caro Thomas, l’opinione della maggioranza (che l’accesso a Internet avrebbe creato «un habitat ideale, politico e democratico», come dicevi tu) è andata incontro a un’amara delusione. L’accesso al web si è rivelato essere non una ricerca di più illuminazione, di più ampi orizzonti, di conoscenza di concezioni e stili di vita che si ignoravano, al fine di instaurarvi quel dialogo che l’«habitat democratico ideale» richiede. La maggior parte delle ricerche sociologiche in merito mostra che la maggioranza degli utenti usa Internet attratta non tanto dall’opportunità di accesso, quanto da quella di uscita (exit). Questa seconda opportunità si è finora rivelata più allettante; è ampiamente usata più per costruirsi un rifugio che per abbattere muri e aprire finestre; per ritagliarsi una comfort zone tutta per sé, lontano dalla confusione del caotico e disordinato mondo della vita e dalle sfide che esso pone all’intelletto e alla tranquillità dello spirito; per prevenire la necessità di dialogare con persone potenzialmente irritanti e stressanti, in quanto di opinioni diverse dalle nostre e difficili da comprendere, e di conseguenza la necessità di impegnarsi in un dibattito e rischiare di uscirne sconfitti. Con il semplice espediente di cancellare ciò che non si desidera appaia o di bandire l’accesso a ospiti indesiderati, la rete permette uno «splendido isolamento» puramente e semplicemente irrealizzabile e inconcepibile nel mondo offline (provate, se ci riuscite, a raggiungere lo stesso obiettivo per strada, nel vicinato, sul posto di lavoro…). Anziché servire la causa di ampliare la quantità e migliorare la qualità dell’integrazione umana, della reciproca comprensione, cooperazione e solidarietà, il web ha facilitato pratiche di isolamento (enclosure), separazione, esclusione, inimicizia e conflittualità.

E poi hai toccato un altro punto estremamente importante: «i numerosissimi casi di cyberbullismo e di diffamazione»… Internet in effetti offre a chiunque libero spazio per insinuazioni, maldicenze, calunnie e diffamazione, e in generale per la menzogna (come osserva causticamente un ex dignitario sovietico nelle sue memorie Requiem per la mia terra madre, la rivoluzione «democratica» in Russia «ha liquidato il monopolio sulla menzogna del partito al governo»). Forse non incontrerai mai la tua vittima faccia a faccia (e viceversa); ben nascosti dentro un’armatura di anonimato, il rischio di essere denunciati per calunnia si riduce al minimo.

Thomas Leoncini:

Così il rapporto «fama-web» crea un meccanismo di amplificazione della modernità liquida stessa: un ricco buffet stracolmo di prelibatezze che fa venire l’acquolina in bocca. E il web è il ricco buffet di delizie.

Internet spesso amplifica sia i desideri sessuali sia il desiderio di immortalità. Platone è nato più di 2.400 anni fa; ha affermato che l’uomo sarà scioccato dal comportamento dei suoi simili se prima non sarà in grado di mettere a fuoco che ogni uomo è pervaso dall’amore per la fama e ardisce a ottenere gloria immortale. Per garantire questa reputazione all’interno della società, secondo Platone, l’uomo è in grado di affrontare qualsiasi pericolo, con ancor più ferocia di quella che userebbe per difendere i propri figli.

Oggi tutti hanno almeno dieci minuti di celebrità nella loro vita: basta mettere la data di nascita sul proprio profilo Facebook e quel giorno, ogni anno, ci si riempie di notifiche pubbliche, che per le donne si traducono spesso in inviti a prendere un caffè, mentre per gli uomini in un allargamento di opportunità di seduzione. Cosa ne pensi di questo?

Zygmunt Bauman:

Penso che sia un altro argomento importante che giustamente introduci nel nostro dialogo: una novità che tanto per cambiare può veramente, al meglio, generare nuove opportunità per la vita pubblica. Quella che tu chiami «fama» è dopo tutto una spada a doppio taglio. Le celebrità sono note perlopiù per essere chiacchierate, ma anche le persone portatrici delle idee più benefiche devono farsi un nome, se vogliono che le loro proposte siano lette, ascoltate e seriamente dibattute. Internet smantella molte delle barriere erette in passato intorno agli accessi alla sfera pubblica, che troppo spesso equivalevano a una censura informale. Non si riusciva ad apparire in pubblico se non ci si era guadagnati i favori di un’emittente televisiva; non si raggiungeva il pubblico dei lettori per far conoscere le proprie idee, per quanto originali e valide potessero essere, se la direzione di un giornale o di un periodico seri non accettava di stamparle e diffonderle. Queste chiusure, questi severi vincoli imposti all’accesso alla sfera pubblica sono ormai un ricordo del passato, a giudicare dal nostro dialogo. Nel bene e nel male…

Thomas Leoncini:

Secondo alcune recenti ricerche di The Wrap, un giornale online di Hollywood, è allarmante il numero di aspiranti suicidi post reality televisivi: recentemente sono state undici le morti di questo tipo negli USA. Il magazine scrive che i concorrenti non si rendono conto dello stress a cui vanno incontro sotto i riflettori. E le vittime sono fra le più insospettabili: si legge di un viceprocuratore distrettuale, di un padre single, di un giovane pugile. Ma soprattutto, secondo The Wrap, il fenomeno non è limitato solo agli Stati Uniti, ci sono stati suicidi o tentati suicidi anche in India, Svezia e Inghilterra. Secondo un recente articolo del New York Post, negli USA sarebbe il caso di aprire veri e propri centri di assistenza psicologica per concorrenti televisivi!

Ormai chiunque può diventare famoso se messo nel posto giusto, anche una casalinga o milioni di cuochi sparsi per il mondo. Tutte persone che non sono abituate ai riflettori e che scoprono fin da subito un male tipico dei tempi moderni: l’ansia. Susan Boyle è solo una goccia nell’oceano: in attesa della finale di Britain’s Got Talent dovette essere sottoposta a cure per eccesso di stress. Le fu diagnosticata una sindrome «televisiva»: l’eccesso di tensione che deriva dall’essere proiettati da una vita normale e perfino banale a una ribalta pubblica, davanti a milioni di spettatori.

Tutto questo è perfettamente in linea con i risultati di un esperimento scientifico che fa riflettere, condotto recentemente in Svezia, al Karolinska Institutet. Un gruppo di 125 volontari ha sperimentato forse il miglior rimedio in assoluto mai conosciuto per eliminare l’ansia e gli attacchi di panico: l’invisibilità.

Sì, il rimedio consiste nel convincersi di possedere un corpo invisibile in situazioni sociali stressanti. Grazie a un caschetto per la realtà virtuale, i volontari hanno percepito il loro corpo come del tutto trasparente. Il display mostrava infatti lo spazio e gli oggetti circostanti ma non il corpo della persona. La percezione è stata rafforzata grazie al tatto: i soggetti sentivano degli oggetti toccare la pelle, ma li vedevano muoversi nel vuoto. Quando poi hanno visto davanti a loro una folla virtuale di persone che li fissava, i volontari che avevano interiorizzato la sensazione di essere invisibili avevano frequenze cardiache e livelli di stress più bassi.

Nella modernità liquida l’ansia e la depressione sono notevolmente aumentate, ma l’esigenza epicureadell’invisibilità è quasi scomparsa. Eppure la cura di questi due mali tipici della modernità liquida potrebbe essere proprio l’invisibilità. Quell’invisibilità che oggi altro non è che la peggiore «malattia» sociale moderna. Se non sei visibile in rete, avrai poche chance di scalare la piramide sociale, ma soprattutto non avrai alcuna chance di e-commerce sentimentale. Non è mai stato così sottile nella nostra società il rapporto tra sesso e amore nelle persone più giovani. Il vecchio concetto di uomo corteggiatore e donna preda è oggi un miraggio arcaico, quasi ridicolo. Le nuove generazioni di donne hanno sdoganato il ruolo femminile: oggi la «femmina» è sempre più dominante e leader nella scelta del partner. Molte ragazze gestiscono senza nascondere (attraverso Internet) la loro ricerca sessuale e la vita quotidiana alla ricerca d’amore e di attenzioni.

Zygmunt, secondo te la ragazza leader di oggi riabilita il matriarcato?

Zygmunt Bauman:

Apparentemente, né il matriarcato né il patriarcato sono segni distintivi dei tempi odierni; piuttosto, una continua negoziazione e rinegoziazione dei ruoli maschili e femminili, sotto l’impatto della storia o della biografia, o di entrambi i ruoli: ruoli ora liquidi, non-fissi, e men che meno cementati una volta per tutte, «nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, finché morte non ci separi». Quei ruoli sono ora perennemente a disagio nella loro forma attuale, e così poco fiduciosi nella saggezza delle proprie scelte, e inquieti, perché perennemente incerti riguardo alle loro alternative e opzioni «altre»; l’incertezza, insomma, regna sovrana.

Ma quel che più conta è che molti, forse la maggior parte dei giovani d’oggi, uomini e donne, all’atto pratico preferisce che siano così, anche se magari non lo dice a parole. Preferiscono il presente stato di cose (la sua flessibilità, perenne provvisorietà ed eventuale possibile rinegoziazione), non perché lo trovino confacente (e tantomeno ideale!) ma perché temono ancor più le sue alternative. Molte volte, per molti anni, sono andato ripetendo che ci sono due valori altrettanto importanti, anzi indispensabili, per una vita degna, gratificante e dignitosa: sicurezza e libertà. Ma che la loro conciliazione, la fruizione di ciascuno in misura soddisfacente e sincrona, è ardua e faticosa. Non è possibile aumentare la propria sicurezza senza decurtare la propria libertà, né aumentare la propria libertà senza cedere un po’ della propria sicurezza.

Thomas Leoncini:

Dal 2009 esiste un gioco per Nintendo, dal titolo LovePlus, che simula l’esperienza di amore romantico con un adolescente. Per molti, tuttavia, il gioco non si limita a questo, è diventato qualcosa di più: un rapporto che si sta avvicinando davvero a una storia d’amore «normale». In Europa LovePlus non è stato molto pubblicizzato, ma in Giappone, stando ai numeri, è diventato un bestseller nella categoria. Centinaia di migliaia di giapponesi l’hanno acquistato e molti di loro hanno dichiarato di amare veramente la donna avatar creata come «esclusiva personale» dal gioco e hanno riferito di sentirsi soddisfatti dal rapporto con lei sotto tutti i punti di vista. Possesso, potere, fusione e disincanto: l’amore virtuale è l’arma ipermoderna dello strapotere dei quattro cavalieri dell’Apocalisse?

Zygmunt Bauman:

Nel momento in cui ti innamori, probabilmente non ti accontenterai di una sola notte d’amore: vorrai di più, molto di più. Vorrai che quell’amore, quel meraviglioso dono del fato, si cristallizzi, duri per sempre (come esclamò esultante Faust, acceso d’amore alla vista della realizzazione del proprio progetto: «Fermati dunque! Sei così bello!»).b Non ti sarà più possibile immaginare un mondo che non lo contenga, e la tua vita in un mondo simile. Il problema è che quel volere che «duri per sempre» implica, almeno in quel momento, niente di meno che una decisione e una promessa, al proprio partner e a se stessi, di amore eterno. E da quel momento in poi tu decidi di nuotare controcorrente. Dopo tutto, contrai quell’impegno, quell’obbligo, in un mondo tutto dedito al mordi e fuggi, ad afferrare opportunità fugaci, di breve durata ed eminentemente revocabili; a saltare il fosso con poca o nulla esitazione, non appena scopri che l’erba dall’altra parte è più verde della tua. E tu sei una creatura di quel mondo – ci sei stato allevato, educato, istruito, affinato, nonché quotidianamente riconfermato in quanto tale. Esiste un modo per conciliare l’amore «finché morte non ci separi» con la curiosità, vivacità, disinvoltura e nel complesso irrequietezza di una simile creatura, figlia di una simile società?

Thomas Leoncini:

Curiosità e vivacità, lo sai a cosa mi fanno pensare? Al desiderio. A quel motore che per natura l’essere umano idealizza come parola positiva, anche se potenzialmente distruttivo dell’ordine. Ma in un certo senso amore e desiderio possono coesistere. Come tu stesso hai spiegato, la distruzione fa parte dell’essenza stessa del desiderio. Il desiderio è un impulso che distrugge, o meglio, un impulso di autodistruzione. L’amore invece è il desiderio di accudire l’oggetto a cui si tiene. Hai definito l’amore un impulso centrifugo, a differenza del desiderio, che è centripeto. Se il desiderio vuole consumare, l’amore vuole possedere. L’amore è una minaccia per il proprio oggetto e questo è un importante punto in comune con il desiderio. Il desiderio è autodistruttivo, ma la protezione che l’amore tesse intorno all’oggetto che ama finisce per rendere schiavo l’oggetto amato. L’amore arresta il suo prigioniero e lo sorveglia, lo arresta per proteggerlo. In tutto questo, quanto pesa l’incertezza umana?

Zygmunt Bauman:

L’incertezza di cui dicevamo è la rovina dei legami interpersonali contemporanei (incluse, e in modo massimamente eclatante e doloroso, le relazioni d’amore). L’incertezza è condannata a essere stretta nella morsa di due forze potenti reciprocamente ostili, che nella loro tensione permanente non possono rigenerarsi e rialimentarsi; appare altamente improbabile che una condizione simile possa risolversi in un prossimo futuro. Né c’è da meravigliarsi che sia così e non possa essere altrimenti, considerando che essa è costantemente pressata a schierare i suoi combattenti e armamenti su due fronti, ciascuno dei quali richiede un diverso tipo di equipaggiamento militare. Troppo spesso, il successo su un fronte si paga con il fallimento sull’altro – talvolta fino a rasentare la débâcle. In quanto congiunzione di ignoranza (nel senso di incapacità di prevedere ciò che il/la partner deciderà in risposta alle mie mosse, o a quale stratagemma, espediente, trucco o manovra penserà di ricorrere, e dove, e quando) e impotenza (nel senso che, se preso alla sprovvista, non-avvertito e impreparato, sorpreso e confuso, rischio costantemente di reagire inadeguatamente alla nuova situazione che può nascerne), coronata per di più dal duro colpo sferrato alla mia autostima dall’umiliazione di non risultare all’altezza del compito, l’esperienza dello stato di incertezza tende ad avere come ripercussione una ricerca di fuga dalla debolezza, fragilità, schizogenesi e nel complesso labilità e instabilità dei legami; e il più delle volte la via di fuga – che sia scoperta o inventata, genuina o presunta – si riduce a disperati tentativi di consolidamento del legame. Il fatto di essere rimasti «scottati» può mitigare il timore di regole ferree, di codici di comportamento non negoziabili – e persino la ancor recente avversione per promesse solenni e a lungo termine – attenuando l’opposizione a compromettersi. Almeno per un certo tempo: finché la brutta esperienza del passato si stempera, sfuma e svanisce dalla memoria, mentre nuove esperienze negative rimaneggiano l’equilibrio tra guadagni e perdite. I mutamenti che contraddistinguono la storia della mentalità e dello spirito, degli assilli personali e collettivi, delle alternative ideali allo status quo e dei sogni popolari non seguono una linea retta; come ho ripetutamente cercato di dimostrare, seguono piuttosto una traiettoria pendolare, che oscilla in modo intermittente tra i due poli di «piena libertà» e di «piena sicurezza» (nessuno dei quali è mai stato raggiunto, né è probabile o plausibile sia raggiunto, in un futuro da noi immaginabile). A mio avviso, caro Thomas, la dialettica a cui accennavo poc’anzi, cioè quella di carenza/eccesso di sicurezza e libertà, è la cornice concettuale e interpretativa più adatta in cui la problematica da te qui sollevata – quella del cambiamento dei rapporti di potere tra uomini e donne – andrebbe collocata e analizzata.

I rapporti tra i sessi, empiricamente dati nonché postulati, sono oggi tanto ambigui e troppo spesso lacerati da contraddizioni interne (ed endemiche!) quanto i valori che essi perseguono e le condizioni che si auspica/ci si attende tali valori instaureranno, quando le donne avranno conseguito la parità. Termini come «patriarcato» o «matriarcato», insieme ai loro affini (già numerosi, e ancora in crescita), non sono pertinenti; confondono più di quanto possano chiarire.

La posta in gioco nei contemporanei conflitti di genere non è più il potere e il dominio di uno dei due sessi sull’altro. Al femminismo interessa sì la parità – di condizione sociale, opportunità e prestigio, autorità e accesso ai luoghi «in cui si prendono le decisioni e si agisce» – ma il suo altro filo conduttore, veramente cruciale, e che si spera abbia una chance di prevalere, è il terreno su cui e da cui il grado di emancipazione femminile, e il suo influsso sulla natura della risultante condizione umana, andrà misurato: quello in cui alle donne vada consentito svolgere funzioni che finora sono state (in pratica, non solo formalmente) riservate agli uomini, e vengano così messi all’ordine del giorno il rafforzamento e la riconferma da parte delle donne dell’egemonia maschile secondo le consuete dinamiche di potere – o, al contrario, quello di una società in cui venga compiuto almeno un onesto tentativo di rivalutazione dei valori e ripristino dei valori peculiarmente, tradizionalmente ed endemicamente femminili, riammessi dal loro esilio nell’area della marginalità e della derivatività.

Thomas Leoncini:

Nella modernità liquida la sessualità si differenzia dal passato soprattutto per un mutamento dei propri limiti. Quello che ieri non si poteva vivere apertamente, oggi si può fare, anzi, può anche essere sintomo di «avanguardia», di superamento del «vecchio», di capacità, di intelligenza. Jean Piaget parlava dell’intelligenza come di quella capacità dell’essere umano di adattarsi all’ambiente, sia sociale sia fisico. Più sei «adattato», più per gli altri sei intelligente. Siamo in una vita moderna in cui ogni recinto arretra sempre più i propri confini, e definire quali siano oggi i limiti sessuali diventa sempre più difficile. Penso al grande Lévi-Strauss: «La nascita della cultura coincide con la proibizione dell’incesto». Questa frase sembra suggerire: «Fisicamente (tecnicamente) lo puoi fare, ma sai che non lo devi fare!» Più passa il tempo e meno esistono limiti sessuali, soprattutto per i più giovani: anche sui social network assistiamo a quotidiani elogi della propria libertà sessuale. Oggi esiste ancora qualche limite alla sessualità? In futuro si abolirà anche il limite dell’incesto?

Zygmunt Bauman:

Quanto al nesso tra la capacità di adattamento e intelligenza non sarei così certo come tu sembri essere – e questo vale per la totalità del contesto sociale, e non solo per l’ambito dei suoi costumi sessuali. Tutti i mutamenti socioculturali sono prodotti da un meccanismo di «distruzione creatrice» che comporta, necessariamente, adattamento e ribellione: l’assimilazione/adattamento che segue la penetrazione/rifiuto (se ti interessasse approfondire l’esplorazione della logica e del funzionamento di questo meccanismo, ti consiglierei di osservare a lungo e attentamente le opere di Gustav Metzger, che a mio avviso è riuscito meglio di qualunque altro artista nel tentativo di cogliere, sintetizzare e rappresentare succintamente la sostanza di quella che è da lui definita «arte autodistruttiva»). Nella fase contemporanea della sua storia, la cultura tende palesemente verso il suo lato distruttivo – ovvero a privilegiare l’elemento distruttivo della creazione – con l’intento di mostrare, dimostrare ed enfatizzare la mutevolezza, la fragilità, l’endemica instabilità e transitorietà e la brevità dell’aspettativa di vita di tutti i prodotti culturali. Sempre più gli impulsi e gli stimoli della creatività si estrinsecano nella ricerca e nel reperimento di nuovi oggetti di distruzione e nuovi limiti da trasgredire. Ma la quantità degli oggetti passibili di distruzione e dei limiti ancora suscettibili di trasgressione, essendo per sua natura limitata, tende a venire prima o poi esaurita. Tu sembri implicare che essere all’avanguardia consista oggi nel darsi da fare (stay in business) – a escogitare/inventare/immaginare nuovi obiettivi per l’opera di distruzione, anziché limitarsi a distruggere quelli finora rimasti intatti. L’idea di utilizzare il concetto di avanguardia, proprio del contesto delle arti contemporanee, mi pare tuttavia assai dubbia e sconsigliabile. Quello di avanguardia è un concetto ormai storicamente divenuto; quella metafora ispirata dalla prassi militare suggeriva l’immagine di un reparto relativamente piccolo che esplorava il territorio in procinto di diventare il prossimo obiettivo di conquista dell’intero esercito; è – per definizione – la squadra di «pulizia del territorio» destinata a essere seguita dal grosso delle truppe, e a far sì che ciò sia possibile. Oggi nessuno auspica (né desidera, promuove o anche solo considera plausibile) una mimesi tanto intensa di qualunque dei presenti e futuri stili artistici. Né avanguardie né, se è per questo, scuole artistiche sono più plausibili. Nella nostra società fortemente individualizzata, ci si aspetta che gli artisti siano una one-man (o woman) band. Lévi-Strauss considerava la proibizione dell’incesto come l’atto di nascita della cultura in quanto vi rinveniva il primo caso di sovrapposizione (superimposing) di distinzioni ideate dall’uomo sulle naturali identità/differenze tra esseri umani. Egli definiva la cultura come un continuo processo di strutturazione, l’incrociarsi di differenziazione dell’omogeneo e omogeneizzazione del differenziato, regolato da un duplice arsenale di prescrizioni e tabù. Tra l’altro, è curioso che il più antico tabù della storia dell’opposizione-cooperazione natura/cultura si sia rivelato anche il più duro a morire. Ti sei forse imbattuto in qualche spiegazione convincente di un simile, eccezionale potere di resistenza, tale da dar luogo a una simile, eccezionale longevità?

Thomas Leoncini:

Ovviamente non ne conosco di duraturi come l’incesto. Quindi il più grande tabù della storia sarebbe destinato a perdurare anche nel futuro della liquidità. E questa è una notizia, qualcosa di solido in un contesto dove i confini sono per natura orgogliosamente liquidi, flessibili. Mentre scrivevo la parola «flessibili» il mio cervello ha subito recuperato uno schema che nel diventare percetto (utilizzo questa parola tecnica proprio per evidenziarne la soggettività della visione e differenziarlo totalmente dallo stimolo distale) ha evidenziato un parallelismo che solo un nativo liquido può condividere con me nella sua immediatezza di accesso. Penso al lemma «flessibilità» e vedo scritta la parola «lavoro». Non a caso anche lo studio del lavoro – penso allo sviluppo moderno della psicologia del lavoro – è completamente mutato: oggi è fondamentale capire e valutare subito il gap (lo scostamento) che esiste tra i saperi formalizzati (quelli scolastici) e quelli invece concreti.

Quello che sta emergendo a livello globale è una maggiore diffusione dei saperi formalizzati (il livello di istruzione è decisamente più alto rispetto al passato), ma la formalizzazione dei saperi non va di pari passo con la capacità, con l’arte di saper gestire il concreto, trasformando in pratica quotidiana il sapere formalizzato. La chiamo arte (attirandomi probabilmente qualche critica) perché è capacità soggettiva e al contempo creativa, consapevolmente creativa e molto difficilmente riproducibile esattamente fra individui diversi. Quindi lavorativamente ci sono tanti individui con competenze formali elevate ma che si aspettano da altri la possibilità di avere una collocazione, come succedeva invece nel passato – in specifico nella modernità solida, che possiamo orientativamente indicare come un centinaio di anni fa – per chi aveva competenze formali inferiori. La conseguenza è un eccesso di domanda «deresponsabilizzata» di lavoro (ora che ho studiato tanto mi merito un lavoro ben retribuito, dammi tu azienda un lavoro ben retribuito, dimmi cosa devo fare e quante ore al giorno devo lavorare e io lo farò) che è totalmente in antitesi con la richiesta principale del mondo del lavoro di oggi: la flessibilità. La nostra epoca liquida chiede solo un requisito, a noi nativi liquidi: di essere esperti della flessibilità. E i nostri saperi formalizzati, per essere veramente utili a scopi lavorativi, devono risultare orientati verso questa direzione. Ma in termini obbligatoriamente generici la flessibilità lavorativa è in totale dissenso con i giovani di oggi, perché richiede una forte responsabilizzazione: si è passati dal lavoro come mezzo per avere una vita agiata e potersi mantenere, al lavoro come mezzo per trovare un altro lavoro, magari retribuito meglio. E la ricerca della vita agiata attraverso il lavoro, non avendo più un punto di riferimento solido come la stabilità, sta diventando sempre più un miraggio periferico.

La prolifica vita professionale oggi è basata soprattutto su competenze mobilizzate, quelle che servono più di ogni altra per affrontare situazioni di novità. Stare dietro a queste trasformazioni per un nativo liquido non solo è complicato, ma è anche ritenuto ingiusto perché viene proposto come stile di vita soprattutto da chi ha un posto fisso, ben pagato e quindi tipico della modernità solida. Che cosa c’entra tutto questo con la sessualità nella modernità liquida? C’entra molto. Perché se è vero che i nativi liquidi non si sono ancora adattati ai grandi numeri richiesti dalla flessibilità lavorativa, è anche vero che i nativi liquidi sono diventati (a grandi numeri) professionisti della flessibilità sessuale. L’amore solido ragionava in termini di amore eterno (anche se siamo consapevoli di quanto sia labile una promessa dopo vent’anni), l’amore liquido ragiona da qui alle prossime «eterne» ventiquattro ore. Ragionando sempre a livello di grandi numeri, oggi il contratto psicologico fra i partner, ossia quello implicito che fonde in un nucleo minimo aspettative e attese reciproche, sta mutando completamente rispetto al passato. «Permettimi di essere flessibile, lasciami libero di andare e sarò ancora più sincero e libero di tornare da te.» Questo mutamento non è avvenuto in tempi brevissimi…

Zygmunt, tu pensi che anche la flessibilità lavorativa possa riuscire a trasformarsi con efficacia per i nativi liquidi? Potranno anche i nativi liquidi essere appagati dal proprio lavoro flessibile? Oppure il nativo liquido è destinato a essere un lavoratore infelice? L’amore flessibile è nel Dna dell’essere umano? Penso alla poligamia: molti scienziati sostengono da centinaia di anni che l’essere umano sia nato poligamo. Se questo è vero, l’amore liquido è un ritorno alle origini della sessualità umana?

 

Postfazione.

L’ultima lezione.

 

«Chissà cosa mi ha scritto oggi Zyg…» era il pensiero ricorrente di ogni mattina. Sembra incredibile, ma è così. Lui così mattiniero, e pure nottambulo: tra le sette e le otto del mattino era il momento in cui avevo maggiori probabilità di ricevere i suoi commenti alle riflessioni e alle domande che, in piena notte, gli inviavo. Ma a volte mi spiazzava: potevo scrivergli alle due di notte e ricevere risposta dopo nemmeno mezz’ora.

Sono stati mesi indimenticabili, per i quali sarò per sempre grato a lui e a tutta la sua famiglia: il professor Zygmunt Bauman mi ha regalato qualcosa di impagabile, di unico, l’ennesimo insegnamento di una vita straordinaria.

Queste sono forse le parole più difficili che io abbia mai scritto, perché rammentare cosa ho provato il 9 gennaio 2017, proprio mentre fissavo il banco dei surgelati in un supermercato, è qualcosa di così doloroso da meritare una rimozione freudiana. Era qualche giorno che non ricevevo più sue comunicazioni. Nell’ultimo messaggio che mi inviò, mi domandava quanto, secondo me, avrebbe dovuto ancora scrivere per concludere l’ultimo capitolo del nostro libro. Lui, il più grande, che chiedeva a me, a un giovanotto, quanto doveva scrivere. La grandezza di quest’uomo era pari solo alla sua umiltà. Fino ai suoi ultimi giorni in questa terra ha vissuto per la sua missione: farci conoscere il mondo. Sì, ha letteralmente adottato le generazioni successive alla sua e le ha prese per mano, per aiutarle a conoscere e interpretare il mondo per davvero.

Zygmunt Bauman aveva un dono straordinario: ci ha insegnato un metodo di analisi e ha vissuto per costruire strumenti che permettono di comprendere dove ci troviamo e dove andremo.

Poco prima della sua scomparsa mi ha scritto: «Questo libro sarà sulle tue spalle, deve venire bello e genuino come mi hai promesso». Quando ho letto quel messaggio ho pensato a un rimprovero, per non avergli ancora rimandato il testo in bella copia. L’ho fatto subito. Un’ora dopo aveva per intero tutto quanto avevamo scritto insieme fino a quel giorno. Non è più ritornato sull’argomento, e solo dopo, solo quel giorno, di fronte al banco surgelati, ho capito che cosa intendeva veramente. Aveva compreso quello che non potevo, che non volevo comprendere. Quello che mi aveva chiesto era un libro simbiotico: i nostri sessant’anni anagrafici di differenza, esatti esatti, dovevano superare il limite imposto dalla modernità e tracciare un’unione efficace tra discontinuità (io) e continuità (lui). Aveva insistito su questo punto.

Uno degli autori che di recente il professor Bauman amava citare più spesso è José Ortega y Gasset, e le sue teorie sul «divenire». Ortega y Gasset sostiene limpidamente che il problema non sta tanto nelle differenze tra le generazioni. Il punto cruciale non è che le generazioni sono diverse le une dalle altre: è la loro coabitazione contemporanea nello stesso mondo. Soprattutto, ci rammenta che le generazioni si definiscono in relazione dell’esistenza reciproca. Per Hans Jonas la consapevolezza di essere mortali rende importante il tempo che si trascorre. E possiamo affermare di essere gli unici viventi che hanno questa consapevolezza in modo così dichiaratamente esaustivo. Ma avere tale consapevolezza è davvero un bene? Lo stesso Jonas ha risposto: «Sono nel pieno delle mie facoltà intellettive, posso pensare, interessarmi alle cose, leggere libri, leggere quello che dicono gli altri, parlare con loro, però con il passare degli anni capisco sempre meno la poesia moderna, la musica contemporanea non mi dà grande piacere; semplicemente non accetto altre esperienze. Ne sono già colmo, mi disturba farne altre. I giovani che mi circondano non sono oberati dal peso delle esperienze passate come lo sono io». In breve, per Jonas il trascorrere del tempo dona autorità alle abitudini non ancora radicate. E i giovani non possono per natura creare abitudini radicate dal peso del tempo. Il rapporto tra le generazioni è quindi riassumibile in un problema di continuità e discontinuità. Ed è proprio questo rapporto, per il professor Bauman, che genera il presente e genererà il futuro.

Durante la sua straordinaria esistenza Zygmunt Bauman ha ribadito che se abbiamo il progresso, se abbiamo la storia, è grazie alla dialettica tra continuità e discontinuità. Non si può parlare degli anziani se non in opposizione ai giovani: genitori/figli, insegnanti/allievi si definiscono a vicenda grazie al rapporto di interdipendenza. Tutti passiamo o siamo passati attraverso qualcuna di queste dicotomiche definizioni.

Ma nella modernità liquida tutto è cambiato. Ognuno di noi, sul palcoscenico della contemporaneità, è consapevole dell’impotenza degli strumenti che possiede. Siamo attori del grande teatro del mondo, ma quando i riflettori sono tutti per noi, l’agnosia ideativa ci colpisce come un pugno.

Se ai tempi in cui è cresciuto Bauman la tesi della razionalità strumentale di Max Weber era la miglior rappresentazione della realtà – perché gli obiettivi da raggiungere erano chiari, bisognava trovare i mezzi giusti per realizzarli –, oggi i nativi liquidi nella migliore delle ipotesi non hanno che i mezzi. Qualche risorsa, qualche competenza, qualche abilità. Ma a livello inconscio, ciascuno non può che domandarsi costantemente: cosa mai posso fare con tutto questo?

Zygmunt Bauman lo sapeva bene. E sapeva che il proliferare della lotta generazionale non è che un inganno.

Penso sia questo il motivo che l’ha spinto a scegliere una persona come me per consegnare l’ultima lezione della sua vita. Penso sia questa la ragione per cui ha scelto di lavorare con così tanta passione e dedizione a questo breve libro.